Citazione

venerdì 14 maggio 2010

ho ucciso un re


Rubo dal blog dei Wu Ming un pezzo dedicato a Bresci. Ottima lettura a tutti.

(...)Il principino mancato salmodiava: "Io credo nella mia cultura e nella mia religione, / per questo io non ho paura di esprimere la mia opinione. / Io sento battere più forte il cuore di un’Italia sola, / che oggi più serenamente si specchia in tutta la sua storia." Pura apologia della "smemoria condivisa": un'Italia tarallucci-e-vino unita nell'oblio di ogni sopruso passato e nella rimozione di ogni schifezza presente. E Ghinazzi ci metteva il carico da undici cantando: "Tu non potevi ritornare pur non avendo fatto niente..." Tra i conati di vomito, decidemmo di scrivere un ritratto di Bresci per la rubrica "Wumingwood" che teniamo su GQ.(...)
L’AMICO AMERICANO
Durante l’ultimo Festival di Sanremo sono circolati in Rete moltissimi video taroccati con l’esibizione canora del trio Di Savoia – Ghinazzi – Canonici. In una di queste perle il testo e la musica di Italia amore mio sono sostituiti da un’altra canzone, in modo che il sedicente principe di Piemonte sembra intonare le parole “Deh non ridere sabauda marmaglia, se il fucile ha domato i ribelli”, mentre Pupo gli risponde aulico e fiero: “Se i fratelli hanno ucciso i fratelli, sul tuo capo quel sangue cadrà”. Il montaggio si conclude in dissolvenza sul primo piano di un signore coi baffi impomatati, le punte appena girate all’insù, scuro di occhi e capelli, elegante nella sua giacca nera, camicia bianca e farfallino.
Una foto che nell’estate del 1900 costò il sequestro a un giornale di provincia, colpevole di averla pubblicata, mostrando così ai suoi lettori che Gaetano Bresci, l’assassino del re Umberto I, era un uomo di bell’aspetto e non una bestia.
All’epoca dei fatti, Gaetano aveva trent’anni, essendo nato vicino a Prato l’11 novembre 1869, lo stesso giorno di Vittorio Emanuele Ferdinando Maria Gennaro, futuro re d’Italia.
La sua famiglia s’era ridotta in miseria, come migliaia di altre, per via della crisi economica e delle tasse sui generi di prima necessità. Così Gaetano, a undici anni, comincia a lavorare quattordici ore al giorno, dal lunedì al sabato, e la domenica alle scuole comunali, per imparare a decorare la seta. A 23 anni finisce in galera per due settimane, con l’accusa di aver insultato una guardia. A 26 lo mandano al confino sull’isola di Lampedusa, per aver partecipato a scioperi e manifestazioni anarchiche. Tornato a casa, trova lavoro in Garfagnana, conosce una certa Maria e si ritrova con un figlio sulle ginocchia. Al che, decide di partire per gli Stati Uniti. In cerca di fortuna? Inguaiato dalla paternità? Stanco degli sbirri che lo sorvegliano? Non è dato saperlo. Fatto sta che paga una balia per il neonato e all’inizio del 1898 si trasferisce a Paterson, nel New Jersey, cuore di una fitta comunità di anarchici, soprattutto italiani. Gaetano frequenta i loro circoli, conosce il famoso Errico Malatesta, ma a differenza dei compatrioti si mette a studiare l’inglese, bazzica le osterie locali, gira con la macchina fotografica al collo, come un vero americano. Gli piace vestirsi bene e fa colpo su molto donne, finché non sposa un’operaia irlandese di nome Sophie. La loro luna di miele, però, è rovinata da una notizia terribile: almeno centoventi persone sono morte a Milano durante una grande protesta popolare contro il caro vita. Per riportare l’ordine in città, il generale Bava Beccaris ha fatto sparare sulla folla con i mortai. Un “grande servizio reso alle istituzioni e alla civiltà”, per il quale Umberto I lo ha decorato con la croce di Grand’Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia.
L’infame gesto del re ha due conseguenze immediate: da un lato, ispira un anonimo musicista a comporre la canzone sulla sabauda marmaglia e sul feroce monarchico Bava che gli affamati col piombo sfamò. Dall’altro, convince Gaetano Bresci ad acquistare una pistola Harrington & Richardson calibro 32 e a cominciare l’allenamento da tirannicida.
Prima di lui, altri due uomini hanno tentato di far fuori Umberto I: sono Giovanni Passannante e Pietro Acciarito. Entrambi ci hanno provato con un coltello e sono finiti all’ergastolo in un manicomio criminale. Forse per questo Gaetano preferisce affidarsi alle pallottole e alla mira. O forse sa che il re, da allora, indossa una robusta corazza in tutte le sue apparizioni pubbliche, come quella prevista per la fine di luglio a Monza, in occasione di un saggio di ginnastica.
Il 17 maggio 1900, quando si imbarca per Le Havre, Gaetano ha un ottimo stipendio, un cottage a West Hoboken, una figlia di un anno e una giovane moglie che non sa di essere di nuovo incinta.
Arriva a Monza passando per Parigi, Genova, Prato, Milano. Il 29 luglio indossa il suo vestito più bello e se ne va a spasso per la città, la macchina fotografica sempre al collo, come un turista americano. Mangia cinque gelati al Caffè del Vapore, forse per raffreddarsi il sangue, o perché sa che potrebbero essere gli ultimi della sua vita. Poi si mescola alla folla che accoglie l’arrivo del sovrano e alle 22 e 25 gli spara nel petto i tre colpi fatali.
La leggenda vuole che Gaetano Bresci cercò di allontanarsi come se niente fosse, per poi lasciarsi ammanettare da un carabiniere senza opporre resistenza. A una donna del popolo che gli gridava “Hai ucciso Umberto, hai ucciso Umberto”, rispose senza scomporsi: “Non ho ucciso Umberto. Ho ucciso un re”.
L’epilogo della storia è talmente scontato che potreste anche tirare a indovinarlo: un processo irregolare, la condanna all’ergastolo, il suicidio in cella e i medici, chiamati a constatare il decesso, che annotano sul referto “lo strano odore di putrefazione emanato dal cadavere, come se fosse morto da alcuni giorni”. Proprio qualche giorno prima, in effetti, era giunto al carcere di Santo Stefano l’ispettore di polizia Alessandro Doria, lo stesso che quattro anni prima aveva svolto le indagini su Pietro Acciarito, autore del fallito attentato contro Umberto I. Anche in quel frangente c’era stato un suicidio sospetto. Romeo Frezzi, arrestato per colpa di una foto di Acciarito trovata in casa sua, si era tolto la vita sbattendo la testa contro il muro, nel carcere romano di San Michele.
In quella foto, Acciarito mostrava tutti i tratti fisici dell’anarchico pazzo e delinquente, catalogati proprio in quegli anni da Cesare Lombroso. Il celebre criminologo, però, dovendo esprimersi sul gesto di Gaetano Bresci, dichiarò che i caratteri atavici e la follia non c’entravano nulla: “La causa impellente – scrisse – sta nelle gravissime condizioni politiche del nostro paese”. Secondo i fan club di Emanuele Filiberto e di Casa Savoia, quelle condizioni non sarebbero affatto migliorate grazie alla Repubblica. Un giudizio frettoloso, che non tiene conto di un dettaglio importante: cent’anni fa per sbarazzarsi di un despota bisognava sparare. Oggi, fino a prova contraria, sarebbe sufficiente non votarlo.

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