Citazione

lunedì 27 giugno 2016

LA RAZIONALITA' DEL COCCODRILLO #6

Radio
di quaquaraqua e stronzi


Ci ritrovammo un paio di anni dopo, in una pizzeria, a causa di uno stronzo.

Era novembre, lo ricordo con chiarezza, mi squillò il telefono, era Nib che mi chiese “ti interesserebbe collaborare con una radio?”. Lavoravo poco in quel periodo, momento sbagliato, clienti sbagliati. Chiuso a chiave in un ufficio e con molto tempo libero, quindi l’idea non mi parve affatto male.

Per una serie di eventi tendenzialmente imprevedibili, Nib era entrato in contatto con un certo Quinto Numerelli, sedicente guru del mondo musicale nonché creatore, mente e capo di una nuovissima emittente radiofonica locale, già parzialmente lanciata sul mercato e pronta al botto definitivo, dal nome di Station To Station. Il logo era una specie di locomotiva che in qualche modo doveva richiamare alla mente Crazy Train ma che in realtà faceva pensare a una versione svantaggiata del trenino Thomas.

Quinto aveva bisogno di DJ che sapessero il fatto loro in termini di rock di varie durezze, che preparassero scalette per le varie trasmissioni, facessero interviste, si occupassero un po’ dei testi e quant’altro. Nib era stato assoldato immediatamente e fece il mio nome come altro eventuale collaboratore.

Quinto fu molto soddisfatto del materiale che gli proposi a mo’ di prova d’ingresso e organizzò una pizza d’investitura (non badava a spese, lui) per far incontrare tutta la redazione. Che si scoprì essere composta da tre persone, tutte già nominate in questo capitolo.

Quinto ci promise carta bianca, ci fece produrre un bel po’ di materiale, fra monografie, critiche, scalette tematiche, eccetera. La radio nel frattempo non si concretizzava, Quinto, ad ogni domanda diretta, rispondeva sempre: “Ci siamo, il mese prossimo iniziamo le trasmissioni, tenetevi pronti e se avete preparato qualcos’altro mandatemelo, che così aumentiamo i finanziamenti!”. Questo accadeva in un febbraio. Dal settembre successivo Quinto sparì.

Non tutto il male viene per nuocere. Infatti grazie a quell'anno speso dietro a Quinto, il rapporto fra me e Nib, elaborato ormai il lutto, divenne finalmente solido. In fondo eravamo cresciuti insieme, conoscevamo i reciproci interessi e sapevamo di avere troppo in comune perché le cose potessero andare diversamente. In più c’era il crescente livore verso Quinto a far da collante.

Nib, al tempo, stava con una rompipalle da competizione, matta come un cavallo e con manie di persecuzione. Arrivò a chiamarmi perché voleva sapere il nome delle “troie” (testuale) con cui usciva lui quando diceva che si vedeva con me. Fatto curioso, quando mi fece questa telefonata, ero in macchina proprio con Nib e non stavamo andando a troie bensì, tanto per cambiare, a comprare dischi.
Le dissi innanzitutto che il maschile di “troia”, per il vocabolario, è “porco”, in secondo luogo che non ero interessato all'articolo e che quindi, anche alla luce dell'insulto gratuito e della telefonata affatto gradita, se c’era una troia fastidiosa era lei. Poi passai il telefono ad un allibito Nib.

Lei non aveva senso dell’umorismo. Le stronze pazze rompipalle non hanno mai senso dell’umorismo, se siete interessati a+ una lezione di vita. Litigarono per un bel po’. Nel frattempo eravamo arrivati al negozio e io scesi dalla macchina che ancora discutevano.

Comprare dischi era un rito che andava consumato con modalità e tempistiche precise. Decisi quindi di lasciar litigare Nib in pace, e mi dedicati alla nobile arte di spulciare fra le copertine polverose. Quando uscii, con una bella sporta carica di dischi, loro erano ancora lì a parlare. Aprii la porta della macchina dal lato del passeggero. Strappai il telefono, che poi era il mio, dalle mani di Nib, lo misi all’orecchio in tempo per sentire “tu quella merda di tuo fratello devi smettere di vederla!”

“Viola, scusa, sono la merda… a questo punto avresti rotto le palle e mi serve il telefono.”
“Vaffanculo”
“Se ho tempo, faccio un tentativo, principessa. Ora ciao.”
Click.

Nib non entrò nel negozio di dischi e non accettò nemmeno di dividere il mio malloppo. La storia con Viola proseguì ancora per un dannatissimo lungo strascico, poi la piantò. Ma lei impiegò decisamente un po' troppo tempo a capire che “non voglio più avere niente a che fare con te” voleva dire proprio “non voglio più avere niente a che fare con te”. Poi ebbe la decenza di scomparire.

Viola gli aveva messo le mani addosso nella parte finale della faccenda dei nostri genitori, quando Nib aveva ormai le difese più che abbassate ed era diventato preda facilissima per ogni sorta di sanguisuga. La fine della storia con la pazza fece ringiovanire mio fratello di circa 10 anni e, a dire il vero, fu una mano santa per entrambi. 

Capitolo 7

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lunedì 20 giugno 2016

LA RAZIONALITA' DEL COCCODRILLO #5

Grande
di tragedie, scoperte e separazioni


E pensare che nemmeno dovevo esserci io a quel concerto, ero rimasto in dubbio fino in fondo, mi aveva convinto Nib obbligandomi a vincere una certa indolenza che da un po' stava diventando una vera filosofia di vita.

Nib, che se non ci fosse stato lui chissà che sarebbe stato di me oggi, e probabilmente viceversa. Eravamo una famiglia come tante, noi. Lui il maggiore, quello figo, brillante, vincente, io quello fallace sempre all’inseguimento, in salita, senza scarpe e con i cocci per terra.

Non vorrei buttarla sul patetico parlando di infanzia difficile ma mettetevi nei miei panni! Agli occhi dei nostri genitori, i miei successi non erano che un pallido riflesso dei suoi, persino i suoi sbagli erano qualcosa di epico e drammatico, mentre i miei non arrivavano nemmeno a suscitare sdegno, e io ce la mettevo tutta con i fallimenti, non crediate!

Agli occhi dei nostri amici, perché in fondo con un anno di differenza di età, gli amici erano praticamente tutti in comune, lui era il leader, io l’ultimo della fila. Il maschio alfa lui e il maschio omega io.

Poi, per fortuna, arrivò l’adolescenza. E immaginate un po’? Le nostre amiche era con me che volevano parlare. Era me che cercavano al telefono. Era con me che si confidavano. Ma poi era nelle sue mutande che finivano per mettere le mani. Per capire il perché di questo fenomeno iniziai a fare domande dirette, ricevendo sempre come risposta una variazione sul tema del “tu sei issimo qui, errimo lì, ma ti vedo solo come un amico e lui poi è più grande”.

E io lo odiai per essere “più grande”. Nel frattempo eravamo diventati uomini, almeno per la legge, entrambi all’università, con la differenza che lui macinava esami e voti notevoli, io cazzeggiavo tirando a campare. M’ero iscritto solo per dimostrare che essere “più grande” non significava niente e che giocandocela alla pari, in campi da gioco finalmente diversi, avrei ben dimostrato il mio valore.

Ovviamente fu una pia illusione. Scoprii che frustrazione e voglia di rivalsa non sono né un buon carburante né uno stimolo particolarmente efficace: lui si laureò, magna cum laude, io abbandonai gli studi.

Poi mamma e papà si ammalarono. Quello ci fece diventare uomini non solo esclusivamente davanti alla legge. 

Vedere una persona che ti avvizzisce davanti, come se ogni giorno invecchiasse di 6 mesi è qualcosa che ti scava un buco dentro. Buco che nel mio caso, nel tempo, si è riempito di cinismo e di incapacità a prendere qualcosa sul serio, soprattutto le cose serie.

Fu il periodo peggiore di tutta la mia vita. Beh, fu il peggiore di quella di tutti i soggetti coinvolti ed eviterò dettagli per rispetto verso i nostri genitori, verso noi stessi e verso chiunque abbia vissuto un dramma di quest’entità.

Durante questa battaglia, imparammo a conoscerci, scoprendo di non aver mai davvero capito chi avevamo davanti. Lui scoprì che per tanti anni ero stato esclusivamente una merdina rancorosa, invidiosa e insoddisfatta, io che per lui ero una sorta di monumento all’integrità, uno che cercava di forgiare il mondo a propria immagine rifiutandosi di farsi deformare come aveva fatto lui, facendo sempre quello che gli altri si aspettavano facesse.

Restò sorpreso di sapere che per me lui era stato per anni una sorta di dio dorato messo lì per indicare ai vermi (io, me stesso e me medesimo) quale fosse la via da seguire.

Scoprimmo anche tante cose di noi stessi. Per esempio mi resi conto che, per me, combattere una battaglia persa in partenza non era un problema. Tutti i fallimenti e gli errori fatti fin lì mi tornavano utili. E la mia piccola rivalsa fu rendermi conto di essere estremamente più resistente e coriaceo di Nib. Lo so, così suona male, so bene che non era una gara, ma, credetemi, il giorno in cui riuscirete a guardare negli occhi il vostro idolo e non dal basso verso l'alto sarà un gran bel giorno.

Quando tutto finì, ci ritrovammo comunque svuotati. Con la vita personale ridotta all’osso e una vita lavorativa da dover costruire in qualche modo. Vendemmo la casa, perché non avevamo più coraggio di vivere lì dov’eravamo cresciuti, con tutto il peso dei ricordi e ognuno prese la sua strada e ci separammo, pur mantenendo qualche sporadico contatto.

Capitolo 6

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lunedì 13 giugno 2016

LA RAZIONALITA' DEL COCCODRILLO #4

Parallelepipedo
di esagitate e buone azioni

Caterina l’avevo conosciuta per sbaglio. Una di quelle coincidenze che di solito succedono nei film o nei pessimi libri degli esordienti...

Ero a un concerto dei miei amatissimi Car Bonx, mi stavo sorbendo l'anonimo gruppo spalla con l’unico intento di avvicinarmi al palco per mantenere la posizione. Niente di eroico, il pubblico, causa concomitante finale di non so che torneo di pallone, era scarso.

C’era una tipa davanti a me che saltava. Contenta. Io ero pure un po’ infastidito, sapete elencare 3 cose più fastidiose della gioia altrui mentre ti rompi le scatole? No. Esattamente. E quindi un po’ guardavo quei disperati sul palco che, era da ammetterlo, ce la mettevano tutta per scaldare il pubblico, un po’ guardavo questa che saltava, augurandole cose carine, tipo una storta.

Ad un certo punto, a questo forsennata volò via qualcosa dalla borsa. Guardai pigramente in terra, giusto per curiosità, per cercare distrazione, col piglio e il sentimento del Dr. Spock quando guarda calamità e commenta “affascinante” alzando il sopracciglio vulcaniano.

L’oggetto caduto era una sorta di parallelepipedo sformato. Sembrava pelosetto e, dal modo in cui era caduto, si intuiva pesante. Guardai lei, che saltava, e guardai quel coso, immobile a terra. Mi guardai attorno per capire se altri si fossero resi conto dell’accaduto. Niente. Aspettai che qualcuno, con un po’ più di vitalità in corpo, si chinasse a raccoglierlo. Nessuno si mosse.

Raccolsi l’affare pelosetto. Era un portafoglio. Uno di quelli da donna che dentro sembra ci tengano i mattoni, in pelle scamosciata, non particolarmente bello ed evidentemente strausato. Soppesandolo bussai sulla spalla della salterina dicendo nel frattempo: “Oh! T’è caduto questo…”

Dicendolo, m’immaginai già il suo sguardo carico di disapprovazione che mi accusava di averglielo rubato e mi vedevo portato via da poliziotti giganteschi che prima di arrestarmi mi malmenavano. Non feci in tempo a preoccuparmi, lei prese il portafoglio di corsa, guardandomi di sfuggita attraverso le ciocche bionde che le cadevano sugli occhi, farfugliò qualcosa che interpretai come un “grazie”, armeggiò con la borsa e riprese a saltellare.

“Per fortuna è andata liscia” mi dissi “Non ho dovuto fare la fatica di articolare parole o accendere il cervello. Ora posso riprendere ad annoiarmi in santa pace e attendere”.

Poco dopo la musica s’interruppe, i trogloditi sul palco salutarono e se ne andarono via. La tipa si girò attaccando bottone. Cercai vie di fuga onorevoli, tipo scorgere Nib che affondava nelle sabbie mobili o bimbi imprigionati in un incendio da dover salvare. Niente.

“Dai, ti offro una birra!” Disse. “Ma no, grazie” Risposi d’istinto. “Ma mi hai salvato praticamente la vita, dai, una birra sola, devo sdebitarmi!”. Cedetti, accorgendomi in quel momento che il sorriso della tipa mi piaceva. E mi feci offrire una birra. Si chiamava Marta, chiacchierammo un po’, ci divertimmo durante il concerto vero e proprio, ci scambiammo i numeri di telefono e poi tutti a casa a praticare l'antichissimo gioco dell’uva.

Capitolo 5

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lunedì 6 giugno 2016

LA RAZIONALITA' DEL COCCODRILLO #3

Gol!
di caso e palloni


La vita reale spesso è fin troppo verosimile.

Nei film, nei romanzi o a teatro è tutto più semplice. Tutto accade per una ragione, ogni elemento ha il suo scopo nell'economia artificiale della vita dei protagonisti. Nella vita questo non accade, anche se ci piace illuderci di essere noi stessi i protagonisti.

La vita è una correlazione di azioni e reazioni che si inseguono lungo un’infinita spirale con percorsi talmente caotici da non sembrare nemmeno frutto del caso da tanto sono incasinati. Perché il caso, quello vero, ogni tanto un po' d'ordine ce lo mette: metti un milione di scimmie in una stanza a pigiare le mani su altrettante macchine da scrivere e, prima o poi, una strofa dei Beatles salterebbe fuori… ma quando mai succede nella vita vera?

Guardando la vita che abbiamo alle spalle, l'impressione è che niente torni. Ma poi ci mettiamo d'impegno e inventiamo noi le relazioni fra i vari eventi così da giustificarli, ordinarli, sentirsi migliori, come se la nostra storia fosse una sorta di gioco del 15 con uno scopo finale che se non raggiungi è un’onta. E via allora a tutti quei discorsi assurdi tipo “se non si fosse rotto l’asse dello sterzo, non sarei mai andato a sbattere all’albero e quindi non sarei mai finito in ospedale con fratture multiple a braccia e gamba e non avrei mai conosciuto la fisioterapista che poi sarebbe diventata mia moglie”.

Autoillusione, costruiamo schemi senza alcuna controprova. Non sappiamo cosa sarebbe potuto accadere se le cose fossero andate diversamente. Se la macchina l’avessi portata dal meccanico prima che si sfasciasse lo sterzo? Non mi sarei rotto le braccia, non avrei incontrato la fisioterapista, ma magari la cugina del meccanico. Non so perché lo facciamo, forse perché pensare che siamo solo polvere in balia di un vento impazzito ci sembra inaccettabile.

È più confortante credere al grande disegno che accettare di contare talmente poco che nessun essere divino serio, benché annoiato e solo, si scomoderebbe a romperci i coglioni.

Però poi rifletto sui conti che non tornano mai, dico quelli della vita. E mi chiedo se invece non ci sia qualcuno o qualcosa che analizza tutte le variabili esistenti per poi far andare le cose per quell'unico verso che non avevamo e non avremmo mai considerato, nel bene o nel male.

Il caso. Perché chiamarlo fato o destino sarebbe considerarlo qualcosa di migliore di ciò che è in realtà. Il puro caso che scombina le nostre vite aprendo o chiudendo porte e nascondendoci le chiavi... e lo fa in modo totalmente casuale! E succede in ogni dannato campo. Per esempio, in una partita di pallone, il gol può arrivare perché uno si è allacciato lo scarpino male o magari è scivolato sull'unica zolla sollevata e un altro s’è trovato lì, con la palla improvvisamente fra i piedi e la passa, ma la passa sbagliata e invece di darla al compagno la insacca in rete. Un episodio. Puro culo.

È un caso se ha segnato? Certo! Difficile pensare che ci sia volontà. E la vita è così: fatta di episodi elevati ad episodi. Non si tratta più di tirare palloni che ogni volta possono entrare o no in porta a prescindere dal tuo impegno. Qui ci sono i palloni che tiri tu e i palloni che ti tirano i 7 miliardi di individui sul pianeta. Tutti nello stesso campo. Tutti contro tutti. Portieri volanti. Porte fatte come capita ammucchiando zaini e giacconi e che Dio ce la mandi buona!

E quindi puoi impegnarti quanto ti pare, ma una sera arrivi stanco in un pub fatiscente e magari sei pure un po’ incazzato per un sacco di motivi diversi e ci arrivi con qualche bicchiere d’anticipo. Poi ti lasci andare all'incazzatura, bevi ancora troppo e ti ritrovi in balia di un idiota che detesti per tanti motivi e della sua camicia di colore disgustoso. Proprio quel colore che proprio quel giorno ti infastidisce più del normale. A quel punto basta un commento di troppo. Fai la cosa sbagliata al momento sbagliato. La palla entra nella tua porta. Autogol! L'arbitro fischia la fine della partita. Hai perso, inetto coglione!

Alla fine, forse, hanno ragione quelli che vedono la vita come un percorso circolare e che quindi il caso non è casuale manco per niente e Dio, oltre ad essere davvero spiritoso, non gioca a dadi (o li usa truccatissimi), perché, insomma, se Caterina l’avevo incontrata, era stato per un puro caso.

Caso scaccia caso. Forse.

Capitolo quattro

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