Citazione

lunedì 26 luglio 2010

bavaglino


La stampa se la sono comprata tutta tranne quella contro che tanto i voti non glieli porta e non glieli toglie e la cui presenza serve per poter dire “cazzo vi lamentate? Siete pure liberi di sentirvi Santoro!”.

Hanno fatto pure la legge sul bavaglio che è stata una mossa spettacolare. Hanno detto “I giudici non intercettano e i giornalisti non possono scrivere”. I giornalisti si sono incazzati e pure giustamente. Non li fanno scrivere. Bavaglio, bavaglino, Maledetti! State a vedere che, grazie al compagno Fini, ora permetteranno ai giornalisti di scrivere. Peccato che le intercettazioni, su un piano pratico, non si potranno più fare. Sei libero di scrivere di una cosa che non avviene. E vedete se Fini non risulterà essere pure un paladino della libertà. Lui che è così allergico a ladri, mafiosi e puttane da essere in combutta con Berlusconi dal ’94. Lui che difenderà col suo corpo la sacralità dello stato. Lui, il fascista con la kippa in testa. Quello che Mussolini è una grande statista e il fascismo il male assoluto. Sempre lui, quello che alle poste aveva il record di raccomandazioni.

Anche perché, poi, quando l’informazione è in mano a gente come Minzolini una legge che vieti ai giornalisti di pubblicare le intercettazioni a quantomeno pleonastica. Però resta un pericolo, ovvero Internet. Su internet chiunque dice quello che vuole, chiunque legge quello che vuole, chiunque contesta quello che vuole, la legge dei grandi numeri fa il resto.

Internet questi giovanotti non l’hanno mai capita. È anche giusto così. Mio padre è coevo di Berlusconi. Io lo vedo, lo conosco. È uno che dopo aver fatto un foglio con excell (e dubito che il capellone di Arcore sia altrettanto capace) lo stampa e ricontrolla a mano i conti. È uno che dopo aver mandato un’e-mail la stampa per conservarla. L’altro giorno era sconvolto perché su google aveva trovato delle informazioni su un francobollo sconosciute persino al suo catalogo Bolaffi. “Che strumento incredibile!” ha commentato. La meraviglia del fanciullo. 

I nostri governanti sono a malapena più giovani, pensate che il capo dell’opposizione, quello vero intendo, quello coi baffi, ha il vezzo di definirsi un uomo dell’800 totalmente estraneo alla tecnologia. L’opposizione, la sinistra, quelli che guardano il futuro.

Insomma, dicevo, questi di internet non hanno capito niente, l’hanno sempre presa sottogamba, al più l’avranno vista come una miniera di donne nude... ma forse nemmeno questo visto che Fede al suo capo passa pesanti book cartacei. Comunque... su internet si può far poca censura... intendo oltre impedire fisicamente l’accesso alla rete non costruendo adeguate infrastrutture (e guarda caso è proprio questo il governo delle tre i che ha tagliato tutti gli investimenti sulla banda larga)

Non voglio fare un’apologia della rete, non voglio fare la fine di Grillo che vede in internet la salvezza del mondo, però su internet il tuo concorrente (o avversario) è a un click di distanza. Puoi diffondere notizie false, ma chiunque può sputtanarti, in qualsiasi momento, facendo leva sulla memoria intrinseca dello strumento. Ad un certo punto, qualcuno ha fatto capire che questo non va bene. C’è troppa gente che può dire la sua e dirla in modo efficace e soprattutto essere ascoltata cosa. Non può andar bene, e allora via di bavaglino!

Rumenta, lungi da considerarsi una fonte di pensieri acuti, tantomeno un francesissimo dito nel culo del potere, aderisce comunque all’appello per garantirsi il diritto fondamentale di dire quello che vuole, quando vuole e come vuole, come ha sciaguratamente sempre fatto a sfregio delle più basilari leggi di grammatica, ortografia, buonsenso e financo perdendo la vergogna.

E chiudo ritornando al compagno camerata Fini, quello che voleva il nobel per internet...

martedì 13 luglio 2010

inni irrazionali


Entro anch’io, pur tardivamente, nella querelle sull’Inno d’Italia. 

L’inno di Mameli a me non ha mai fatto impazzire. sono pure più di 150 anni che aspetta di diventare ufficiale. Alla fine, per un Paese unito con la forza, in una Repubblica molto traballante, l’inno provvisorio ci sta, ci rappresenta. Mazzini lo trovava troppo orecchiabile e retorico. E come dargli torto? Lo cambiamo? E cambiamolo, ma con cosa? I leghisti si sono fissati con Va, Pensiero, il notissimo coro presente nel Nabucco di Verdi.

Altri, ben più pazienti e dotti del sottoscritto, hanno provato a spiegare che Va, Pensiero è il canto degli Ebrei prigionieri in Babilonia. Van bene tutte le metafore e le riletture che vuoi, ma quanto può rappresentare l’Italia? Oltretutto è palloso e mi perdonino i fan verdiani. Soporifero per soporifero, tanto varrebbe ripristinare l’inno dello Stato Pontificio (Noi Vogliamo Dio), non foss’altro per una ragione storica e geografica. I leghisti non si sono dichiarati i nuovi baluardi del cattolicesimo? Quindi sarebbe perfetto.

Tornando a Mameli, io sarei per istituire un esame per diventare rappresentate delle istituzioni. Poche domande ad esempio sulla costituzione, sulla storia recente d’Italia e anche sull’inno. 

È noto che gli Italiani non conosco mai i versi delle canzoni che seguono il primo ritornello. Fate una prova, chiamate un vostro amico e chiedetegli di cantarvi Nel Blu Dipinto Di Blu (se facesse scena muta, chiedetegli Volare): vi dirà che da bimbo si ritrovava a volare nel cielo infinito, volare oh oh volare oh oh e poi nell’occhio gli apparirà la fissità dell’ottuso. 

Lo stesso discorso vale per l’inno. Tutti conosco solo la prima strofa. Tutti, compresi i politici. Come già altri hanno fatto notare, i nostri amici verdi dovrebbero andarselo a leggere perché la parte interessante arriva proprio qui, quando si parla di Italiani che non sono un popolo e che sono stati calpestati per secoli, che unendoci sotto un’unica bandiera dalle Alpi alla Sicilia sarà tutta una Legnano, ogni tromba suonerà i Vespri, tutti i bimbi saranno Balilla (no, non c’entrano quelle vaccate di Mussolini) e tutti gli uomini Ferrucci. Si, retorico oltre la soglia dell’accettabile, aveva ragione Mazzini.

Orsù, cambiamolo quest’inno. Mi va bene. Vorrei anche provare a dare il mio contributo e suggerire un canto che è già inno e già appartiene alla nostra tradizione. Un inno all’italianità, a tutti gli aspetti più peculiari che il mondo ci riconosce. Un inno allo star insieme e alla spensieratezza. Basta cambiare una parola. Sostituire il nome di una città con Italia. All'autore, sono sicuro, andrebbe bene.

Signore e signori, la proposta di Rumenta per il nuovo inno della Repubblica Italiana:


venerdì 2 luglio 2010

vado a vivere in campagna?


Sono sempre stato un topo di città. In fondo, pensavo, perché tante genti dovrebbe spostarsi dalle propaggini estreme dell’impero verso la capitale se non per vivere meglio? Perché i barbari sono 1500 anni che insistono tanto per occupare Roma? Perché Napoleone e Garibaldi non si sono fatti i cazzi loro, lasciando il papa-re sul sedile ereditato dai sette re?

La mia mente semplice di ragazzino aveva elaborato la risposta più ovvia: perché la città più è grande, più è ganza. Crescendo questa convinzione è diventata dogma. In città hai tutto a portata di mano, in città hai tutti i servizi che vuoi, in città funziona tutto... cioè, in città fuori dall’Italia funziona tutto, in città in Italia non funziona bene niente, quindi se sei in Italia ma non sei in balia degli elementi come un nomade perso per le steppe della Mongolia.

Tutto il mondo esterno alle città andava bene per fare delle gite, un soggiorno breve, una ricca mangiata o una manciata di fotografie. Bello qui, ma pensa l’inverno quando pioggia e vento sferzano le finestre!

Poi invecchi, vai a lavorare. Hai i colleghi che vivono in campagna e ti sfottono perché loro sì, si godono la vita. Gli fai notare che si fanno 2-3 ore di macchina al giorno e che tu, se vuoi, vai al lavoro a piedi. Ti ribattono che loro, quando arrivano a casa, si godono il prato. Ribatti notando, con pignoleria, che loro il prato non se lo vedono, perché rincasano dopo il tramonto. Ma loro hanno la risposta pronta e ti dicono che sabato e domenica, se vogliono, stanno sbragati a 4 di spade a godersi l’aria aperta. Non fai una piega. Hai parchi immensi a pochi minuti di strada, altrimenti prendi l’autobus e in pochi minuti sei in pieno centro storico.

Nel profondo del cuore sai che menti sapendo di mentire, e sai anche che pure loro mentono spudoratamente, perché farsi 50 km in prima è roba da girone dantesco e che 2 miseri giorni sbragati sul prato non compenseranno mai tutta la merda che si respirano per 5 giorni a settimana. Che tutto il tempo che perdono in macchina lo hanno solamente buttato.

Sai anche però che i tuoi “pochi minuti” di mezzi per andarti a godere il centro città sono una chimera perché ogni spostamento (che sia in macchina o con l’autobus) può trasformarsi nel peggiore incubo possibile. Sai che respiri le peggiori nefandezze che esistano al mondo. E che lo fai tutti i giorni. E che il mandarino cinese che hai sul balcone non riuscirà mai a renderti l’aria migliore. Sai anche che vivi nel casino più totale e che per quanti strati di vetro tu metta alla finestre a svegliarti sarà sempre un BIIIIP o un “malimortaccituaedetunonno!” e mai un dolce cinguettio.

Cinguettio. Sai anche che il massimo del bucolico che potrai permetterti sarà il “cru” dei piccioni che piccionano in bilico sulla serranda della finestra (meringandoti nel frattempo la macchina).

Vivere in un centro piccolo, ma lavorare in una metropoli è demenziale, forse più che abitare direttamente in mezzo alla metropoli. Non sarebbe una via di mezzo, non sarebbe né carne, né pesce. Questa è verità, pura e sacrosanta. Però come sarebbe vivere e lavorare in un piccolo centro? Resti attaccato all’idea che sia brutto.

Se voglio, ho i negozi sotto casa, non devo prendere la macchina, io, se mi finisce la carta igienica. È vero. Ometto però che il negozio sotto casa, di solito, è più cari di un posto in paradiso. 

Per cui sali in macchina macchina, ti fai 5 ore di traffico infernale, vai in un centro commerciale, fai a botte con chiunque, ti perdi nel parcheggio e torni a casa pensando a come sei caduto in bassa e giuri a te stesso che mai e poi mai ci ritornerai. Promesse da marinaio.

Ad un certo punto, ho iniziato a capire che l’unica vera marcia in più di una grande città è legata agli eventi culturali che può offrirti. Teatri, cinema, mostre, eventi, musei, concerti, rassegne, corsi di qualsiasi cosa. Ok, sono cose che ti godi più da vecchio, quando hai tempo da occupare e non paghi nemmeno, però in un centro piccolo hai tutto a scartamento molto ridotto (con le dovute eccezioni), a meno di non puntare sui talenti locali o addirittura fomentare tu un certo movimento. Ma, alla fine, quante mostre si vanno a vedere in un anno? 2? 3? Nessuna? Quanti film irrinunciabili? Quanti concerti? Quante volte al teatro? E cos’è uno spettacolo a teatro davanti a una vita più sana in un luogo fatto finalmente a tua misura? Ecco. Questo è stato l’ultimo scoglio.

La conclusione è che oggi, senza il vincolo del lavoro, io dalla città più bella del mondo me ne andrei ora. Ma proprio subito. Puff! Sbuffo di fumo. E sono... boh... da qualche parte dove ci sia un mare degno di questo nome, gente cordiale e cibo buono. Anche perché, se si deve cambiare, occorre farlo in meglio. L’alternativa è una bella pioggia di fosforo bianco sulla capitale. Mentre sono in ferie.