Citazione

martedì 25 maggio 2010

la cacca di black


Sono piccolo, diciamo tipo 6 anni. Sono vestito con una tuta rossa di Snoopy e un giaccone da inverno impermeabile, marroncino fuori e con pelo marrone scuro dentro. Sono con i miei amici, durante l’intervallo post pranzo a scuola. Siamo nel cortile e giochiamo ai supereroi. Il complesso giuoco consiste nel correre qua e là indossando il cappotto solamente tramite il cappuccio, in modo che svolazzi all’indietro come un mantello. Non ricordo se l’abbinamento fra tuta rossa e mantello marrone mi turbasse, ma penso proprio di no.

All’improvviso vengo assalito da un attacco di Diarrea Thriller. Lo avrete senz’altro provato tutti, una volta nella vita, dolore, sudore freddo e la lucida consapevolezza che il tempo stringe inesorabile. Corro verso i bagno, sito all’interno del gigantesco edificio, arrivo alla porta ma vengo bloccato da un raggelante pensiero: non ho la carta igienica!

La carta, a quei tempi, era gelosamente custodita all’interno dell’armadio della classe. Figuro mentalmente il lungo tragitto fatto di scale e corridoio per raggiungere l’indispensabile oggetto, mi viene anche in mente che la chiave dell’armadietto e nelle mani dell’insegnate. Capisco di non avere tempo e in quel preciso momento succede ... sì, insomma, l’avete capito. Patatrac. Tragedia. Caporetto. Infamia.

In preda al panico mi calo i calzoni, cerco di ripulire in qualche modo le mutandine e, saggiamente, decido di usare il giaccone al posto della carta. Marrone su marrone, è questa l’illuminazione a guidare i miei gesti. Torno in cortile come se niente fosse, pronto alla fase due, ovvero la pulitura del giaccone (che, ovviamente, avevo nuovamente addosso).

Lo stendo per terra, nel terriccio e nella ghiaia. Mi ci siedo sopra e lo struscio in terra. Ma ecco l’imprevisto... si avvicina un amichetto:
“Hey, torna a giocare ai supereroi!”
“No, non mi va più”
“E a cosa giochi?”

E qui il colpo di genio:
“Gioco al pic-nic!”
“...”
“Siediti qui con me”
“No, no, io torno ai supereroi”

E se ne va di corsa.

Io proseguo. Fino all’avvicinarsi di un altro bambino. Si chiamava Tommaso, aveva la mia età ma non era in classe mia. Tommaso era noto per il numero impressionante di gigantesche cicatrici che gli solcavano l’addome. Ma ancora di più era noto per farsi la cacca addosso spesso e volentieri. Ovviamente per noi cicatrici e cacca non avevano alcun collegamento. Insomma, Tommaso era un bimbo un po’ sfigato e io me lo trovo davanti che mi chiede, anche lui, “che stai facendo?”. 

Riprovo con la storia del pic-nic, lui si siede vicino a me, e poi, con noncuranza, indica un pezzo di cacca attaccato al cappotto:
“Ma questa è cacca!”
“No, ma che dici!”
“Sissì, è cacca, io la riconosco!”
“Sei sicuro?”
“Si, alziamoci”
Ci alziamo e lui alza il mio cappotto.
“È pieno di cacca” dice e poi mi guarda in silenzio
“Correvo e sono caduto, forse sono caduto su una cacca!”
“Sicuramente era la cacca di Black!”

Tommaso mi serve l’assist definitivo! La cacca di Black! Black era il cane del custode. Black, per tutto l’asilo era stato il nostro ‘Uomo Nero’. L’asilo e la scuola elementare erano nello stesso stabile con il cortile condiviso. Io Black lo conoscevo bene, non ricordo che cane fosse, so sole che era enorme, nero, feroce e terrorizzante, una sorta di Cerbero. Nessuno di noi sapeva dove fosse, ma tutti lo avevamo visto e tutti sapevamo che si nutriva di bambini. La cacca di Black oltre a una scusa di ferro fungeva anche da subdola vendetta contro l’infernale quadrupede!

E allora Tommaso mi dice:
“Vieni con me, ti porto dalla bidella che ti aiuta a pulire, dobbiamo dirlo che c’è la cacca di Black, altrimenti altri bambini possono caderci dentro”. Ovviamente a quel punto i miei pensieri erano focalizzati su bambini immobilizzati nella cacca e poi sbranati nottetempo. Che subdolo animale, Black.

Tommaso però non mi porta dalla bidella, mi porta in infermeria, per mano, tranquillo tranquillo. Avvicinandoci sento la bidella pronunciare queste parole “non è possibile, era sporco da tutte le parte, c’era cacca fino a qui! Fino a qui dico!!” Siamo entrati mentre lei ripeteva “fino a qui” e lo ripeteva battendo con il taglio della mano lo stipite della porta. Ad almeno mezzo metro sopra la mia testa. Quest’ultimo dettaglio mi fece rimanere con la coscienza pulita. Nessuno avrebbe capito che ero stato io e poi c’era l’alibi della cacca di Black. Ma poi la sento dire “ma cos’è questa puzza?!” e si gira. Mi guarda. Mi guardo. Guardo Tommaso. Guardo me con la tuta di Snoopy smerdata ovunque. Riguardo Tommaso e lui, guardando la dottoressa:
“è caduto sulla cacca di Black”.

La dottoressa ha annuito e mandato via la bidella mentre questa ripeteva “Ma Black è morto due anni fa!”.

Nessuno ha avuto l’ardire di toccarmi e penso anche di rivolgermi la parola, finché non si è materializzata mia madre. Mi ha preso per mano e mi ha portato a casa. Cuore di mamma. Non ho più memoria di quel tragitto e arguisco non dev’essere stato memorabile. Ricordo però l’arrivo a casa. Mi porta in bagno. Mi mette nella vasca. E mi fa fare subito una doccia. Vestito. Con le scarpe. E la giacca.

venerdì 14 maggio 2010

ho ucciso un re


Rubo dal blog dei Wu Ming un pezzo dedicato a Bresci. Ottima lettura a tutti.

(...)Il principino mancato salmodiava: "Io credo nella mia cultura e nella mia religione, / per questo io non ho paura di esprimere la mia opinione. / Io sento battere più forte il cuore di un’Italia sola, / che oggi più serenamente si specchia in tutta la sua storia." Pura apologia della "smemoria condivisa": un'Italia tarallucci-e-vino unita nell'oblio di ogni sopruso passato e nella rimozione di ogni schifezza presente. E Ghinazzi ci metteva il carico da undici cantando: "Tu non potevi ritornare pur non avendo fatto niente..." Tra i conati di vomito, decidemmo di scrivere un ritratto di Bresci per la rubrica "Wumingwood" che teniamo su GQ.(...)
L’AMICO AMERICANO
Durante l’ultimo Festival di Sanremo sono circolati in Rete moltissimi video taroccati con l’esibizione canora del trio Di Savoia – Ghinazzi – Canonici. In una di queste perle il testo e la musica di Italia amore mio sono sostituiti da un’altra canzone, in modo che il sedicente principe di Piemonte sembra intonare le parole “Deh non ridere sabauda marmaglia, se il fucile ha domato i ribelli”, mentre Pupo gli risponde aulico e fiero: “Se i fratelli hanno ucciso i fratelli, sul tuo capo quel sangue cadrà”. Il montaggio si conclude in dissolvenza sul primo piano di un signore coi baffi impomatati, le punte appena girate all’insù, scuro di occhi e capelli, elegante nella sua giacca nera, camicia bianca e farfallino.
Una foto che nell’estate del 1900 costò il sequestro a un giornale di provincia, colpevole di averla pubblicata, mostrando così ai suoi lettori che Gaetano Bresci, l’assassino del re Umberto I, era un uomo di bell’aspetto e non una bestia.
All’epoca dei fatti, Gaetano aveva trent’anni, essendo nato vicino a Prato l’11 novembre 1869, lo stesso giorno di Vittorio Emanuele Ferdinando Maria Gennaro, futuro re d’Italia.
La sua famiglia s’era ridotta in miseria, come migliaia di altre, per via della crisi economica e delle tasse sui generi di prima necessità. Così Gaetano, a undici anni, comincia a lavorare quattordici ore al giorno, dal lunedì al sabato, e la domenica alle scuole comunali, per imparare a decorare la seta. A 23 anni finisce in galera per due settimane, con l’accusa di aver insultato una guardia. A 26 lo mandano al confino sull’isola di Lampedusa, per aver partecipato a scioperi e manifestazioni anarchiche. Tornato a casa, trova lavoro in Garfagnana, conosce una certa Maria e si ritrova con un figlio sulle ginocchia. Al che, decide di partire per gli Stati Uniti. In cerca di fortuna? Inguaiato dalla paternità? Stanco degli sbirri che lo sorvegliano? Non è dato saperlo. Fatto sta che paga una balia per il neonato e all’inizio del 1898 si trasferisce a Paterson, nel New Jersey, cuore di una fitta comunità di anarchici, soprattutto italiani. Gaetano frequenta i loro circoli, conosce il famoso Errico Malatesta, ma a differenza dei compatrioti si mette a studiare l’inglese, bazzica le osterie locali, gira con la macchina fotografica al collo, come un vero americano. Gli piace vestirsi bene e fa colpo su molto donne, finché non sposa un’operaia irlandese di nome Sophie. La loro luna di miele, però, è rovinata da una notizia terribile: almeno centoventi persone sono morte a Milano durante una grande protesta popolare contro il caro vita. Per riportare l’ordine in città, il generale Bava Beccaris ha fatto sparare sulla folla con i mortai. Un “grande servizio reso alle istituzioni e alla civiltà”, per il quale Umberto I lo ha decorato con la croce di Grand’Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia.
L’infame gesto del re ha due conseguenze immediate: da un lato, ispira un anonimo musicista a comporre la canzone sulla sabauda marmaglia e sul feroce monarchico Bava che gli affamati col piombo sfamò. Dall’altro, convince Gaetano Bresci ad acquistare una pistola Harrington & Richardson calibro 32 e a cominciare l’allenamento da tirannicida.
Prima di lui, altri due uomini hanno tentato di far fuori Umberto I: sono Giovanni Passannante e Pietro Acciarito. Entrambi ci hanno provato con un coltello e sono finiti all’ergastolo in un manicomio criminale. Forse per questo Gaetano preferisce affidarsi alle pallottole e alla mira. O forse sa che il re, da allora, indossa una robusta corazza in tutte le sue apparizioni pubbliche, come quella prevista per la fine di luglio a Monza, in occasione di un saggio di ginnastica.
Il 17 maggio 1900, quando si imbarca per Le Havre, Gaetano ha un ottimo stipendio, un cottage a West Hoboken, una figlia di un anno e una giovane moglie che non sa di essere di nuovo incinta.
Arriva a Monza passando per Parigi, Genova, Prato, Milano. Il 29 luglio indossa il suo vestito più bello e se ne va a spasso per la città, la macchina fotografica sempre al collo, come un turista americano. Mangia cinque gelati al Caffè del Vapore, forse per raffreddarsi il sangue, o perché sa che potrebbero essere gli ultimi della sua vita. Poi si mescola alla folla che accoglie l’arrivo del sovrano e alle 22 e 25 gli spara nel petto i tre colpi fatali.
La leggenda vuole che Gaetano Bresci cercò di allontanarsi come se niente fosse, per poi lasciarsi ammanettare da un carabiniere senza opporre resistenza. A una donna del popolo che gli gridava “Hai ucciso Umberto, hai ucciso Umberto”, rispose senza scomporsi: “Non ho ucciso Umberto. Ho ucciso un re”.
L’epilogo della storia è talmente scontato che potreste anche tirare a indovinarlo: un processo irregolare, la condanna all’ergastolo, il suicidio in cella e i medici, chiamati a constatare il decesso, che annotano sul referto “lo strano odore di putrefazione emanato dal cadavere, come se fosse morto da alcuni giorni”. Proprio qualche giorno prima, in effetti, era giunto al carcere di Santo Stefano l’ispettore di polizia Alessandro Doria, lo stesso che quattro anni prima aveva svolto le indagini su Pietro Acciarito, autore del fallito attentato contro Umberto I. Anche in quel frangente c’era stato un suicidio sospetto. Romeo Frezzi, arrestato per colpa di una foto di Acciarito trovata in casa sua, si era tolto la vita sbattendo la testa contro il muro, nel carcere romano di San Michele.
In quella foto, Acciarito mostrava tutti i tratti fisici dell’anarchico pazzo e delinquente, catalogati proprio in quegli anni da Cesare Lombroso. Il celebre criminologo, però, dovendo esprimersi sul gesto di Gaetano Bresci, dichiarò che i caratteri atavici e la follia non c’entravano nulla: “La causa impellente – scrisse – sta nelle gravissime condizioni politiche del nostro paese”. Secondo i fan club di Emanuele Filiberto e di Casa Savoia, quelle condizioni non sarebbero affatto migliorate grazie alla Repubblica. Un giudizio frettoloso, che non tiene conto di un dettaglio importante: cent’anni fa per sbarazzarsi di un despota bisognava sparare. Oggi, fino a prova contraria, sarebbe sufficiente non votarlo.

giovedì 13 maggio 2010

che fare?


Nei commenti a un precedente post mi si provoca garbatamente. Mi si chiede “Quanti immigrati dovremmo accogliere oltre ai 5 milioni circa che ci sono già,e di questi, una volta dentro, non dovremmo rimandarne a casa nessuno, nemmeno quelli che delinquono?”

Bene. La domanda parte dal mio commento sull’affermazione del Sindaco di Moratti per cui un clandestino senza un lavoro è naturalmente portato a delinquere. L’affermazione, per il sottoscritto è demenziale, perché chiunque, clandestino o no, pur di mangiare arriva facilmente a delinquere. Gli Italiani sono un passo avanti e delinquono e basta, ma questo non c’entra e poi è una battuta troppo facile e poi l’ha già fatta sicuramente meglio qualcun’altro.

Tornando alla domanda di cui sopra, io la risposta non ce l’ho. Per me i delinquenti devono stare in galera, chi è qui illegalmente e delinque venga pure rimandato a casa, ma definire delinquente di default il clandestino non mi sta bene. Non può starmi bene. Direi che non dovrebbe star bene a nessun individuo che si autoconsideri “civile”.

Vi risparmio la solfa del Paese è stato un crogiulo di gente diversa e l’ennessima ode agli italici primati positivi derivanti da questa bella mescolanza di genti e razze. Mi limito ad osservare che di stranieri ne arrivano e ne arriveranno anche in futuro, con buona pace di Calderoli e dei druidi Celti. Aggiungo che credere alla palla che questi vengano a rubarci femmine e lavoro è, come dire, ingenuo, esattamente come lo è credere alla storia che sia colpa loro se siamo un paese al collasso.

La mia soluzione? Non so se è una soluzione, ma penso che chi arriva abbia diritto a una possibilità di integrazione, vale a dire, almeno, ad imparare la lingua e un mestiere (curiosamente avviene in tanti di quei paesi che tendiamo, a torto o a ragione, a considerare civili). A quel punto le sue azioni decideranno per lui. Se sbaglia paga lui, se non sbaglia vinciamo tutti insieme. Un nuovo cittadino, un patrimonio genetico e culturale da dividersi, un lavoratore che paga le tasse e che farà dei figli che mi pagheranno la pensione.

mercoledì 12 maggio 2010

relax!


Mi trovavo in uno dei gloriosi centri commerciali della capitale, gironzolando per uno dei corridoio mi trovo davanti a uno spazio indicato come Area Relax. In realtà non era proprio uno spazio ma solamente due grosse poltrone di pelle nera affiancate su un lato del corridoio. Poltrone per un massaggio automatico. È più forte di me, se c’è una stronzata, devo provarla e quella sembrava proprio una stronzata gigante!

Mi siedo, prendo un euro, lo infilo nell’apposita fessura.

La poltrona si attiva iniziando a portarmi in posizione sdraiata. Bello. Poi inizia a stritolarmi le gambe. Non bello. Stringe sempre di più, provo a spostarle, immobilizzate. Proprio quando sto per urlare “Fuggite! È una trappola!” la sedia mi spara nella schiena delle cose tonde e grosse come biglie (intendo quelle di plastica con le foto dei ciclisti). Male, molto male.
Poi le biglie iniziano a muoversi e la presa alle gambe diminuisce.
Appena posso, provo a sistemarmi meglio, lei riprende a stritolarmi le gambe. Peggio di prima. E intanto vengo crivellato da colpi di biglia nella schiena.

La tortura procede per 5 minuti, durante i quali sono oggetto di scherno da parte di tutti i passanti. Lo ammetto, quando le biglie non cercando di entrarmi nelle carni o non schiacciano le ossa la cosa è anche un po’ piacevole, ma sono momenti che durano poco. Sembra di essere massaggiati da una ciurma di pirati ubriachi e maneschi.

martedì 11 maggio 2010

bla bla bla


“I clandestini che non hanno un lavoro regolare normalmente delinquono”, lo ha detto la Moratti. È invece universalmente nota la propensione all’onestà degli Italiani, con o senza lavoro. Battute qualunquiste a parte, che intende il sindaco di Milano per “delinquere”? Non facendo riferimento a nessuna accezione particolare del vocabolo, presumo intenda quanto affermato dal vocabolario della lingua italiana, ovvero “commettere uno o più delitti” dove il significato di delitto oscilla fra “violazione di una norma penale per la quale siano previste le pene dell'ergastolo, della reclusione o della multa” e “grave mancanza o colpa”. 

Un immigrato senza lavoro dovendo pur mangiare o andrà a rubare o lavorerà in nero o chiederà l’elemosina. Due su tre di queste opzioni presuppongono una “violazione di una norma penale per la quale bla bla bla”, ovvero un delitto. 

Hey, attenzione, ma questo... ma questo vale anche per tutti gli altri. Cioè, tu, che leggi, se domani ti trovassi senza lavoro che faresti? Si, abbandonati a tutti i gesti apotropaici propri della tua cultura, ma poi immagina che faresti. Ne cercheresti un altro, giusto? E se non lo trovassi? Se ti andasse male? Chiederesti magari aiuto agli amici e/o alla famiglia? Ma questa è elemosina, in fondo. E se nessuno ti aiutasse? E quando gli aiuti finiscono? Ti arrangeresti... pulisco cantine raccolgo tutto, donne è arrivato l’arrotino e l’ombrellaio, ripetizioni, lezioni, vendo oggetti, a.a.a. sarò tuo/a tutta la notte chiamare ore pasti, piccole riparazioni offresi, teresa arriva presto, finisce presto e pulisce pure il cesso... tutto in nero, perché i “lavoretti”, è noto, sono in nero. Oppure vai a fare il commesso da Burger King, sempre che tu non sia “over qualified”...e comunque non basterebbe, dovresti fare anche altro. Evadere le tasse, fino a prova contraria, è reato, come rubare. Comprensibile, per carità, ma è comunque reato.

Poi, se pensiamo che abbiamo un parlamento occupato da un certo numero di inquisiti e pregiudicati e che uno dei record nazionali è l’evasione del fisco, qualche pensiero in più sulla questione andrebbe fatto. Non da me, non ora.

Tornando al tema, un extracomunitario senza lavoro ha comunque una quarta opzione quella del tornatene a casa stronzo. Che è quella che sembrerebbe suggerire lady Moratti. Ma, anche in questo caso, è un opzione che vale per un sacco di persone, a prescindere dalla nazionalità... tipo, la Moratti, non potrebbe andare a casa, chiudersi nella stanza dei fornelli e fare la brava massaia?

lunedì 3 maggio 2010

trilobite


Un’amica, nel suo blog, scrive questo. E io mi ci ritrovo in pieno. Più che un dinosauro mi sento un fossile, uno a caso... facciamo un trilobite. Sto lì. Fermo immobile. Osservo, vedo, rifletto, traggo conclusioni, ma lì restano finché le scordo. Tempo, cose, persone mi scorrono davanti e non ho voglia/modo/tempo/capacità di fissare il tutto, nero su bianco o a chiazze di colore da qualche parte. 

Quando ci provo, quando mi dico “eh no, caro mio, ora ti metti lì, e invece di fare le cose inutili che stai facendo, dedichi 10 minuti a scrivere qualche cazzata” è il momento in cui mi sento una vecchia di campagna che si ritrova in una metropoli, in mezzo al traffico. Mi sento inadeguato, improvvisamente non so più di cosa scrivere e se ho un’idea non so più come scriverla, come rendere il pensiero lineare, come renderlo un minimo frizzante se non divertente. Finisce che magari scrivo, e il tutto alla fine sembra solo un banale piagnisteo intriso dell’atmosfera da sabbia mobile in cui sono immerso per circa 8 ore al giorno.

Penso a non troppo tempo fa, quando non solo riuscivo a scrivere una cosa diversa al giorno, ma la scrivevo mediamente in modo decente e, soprattutto, avevo una lista di cose già scritte e idee abbozzate a cui attingere nei giorni di magra. Non sto sicuramente lavorando più di 2-3 anni fa, non ho una vita tanto più piena, eppure ho il cervello fossilizzato, anzi, una parte sola del cervello è fossilizzata, quella creativa.

Forse è solo un meccanismo di difesa, per far fronte allo stress quotidiano è necessario tenere un stand by tutto il resto sfruttando ogni dannato minuto senza tensione per depressurizzare.

Oppure sto invecchiando.

So che c’è altra gente in questa situazione e so anche che è necessario trovare una soluzione... una soluzione che non contempli proiettili, esplosioni o attese sarebbe sicuramente apprezzabile.