Sono piccolo, diciamo tipo 6 anni. Sono vestito con una tuta rossa di Snoopy e un giaccone da inverno impermeabile, marroncino fuori e con pelo marrone scuro dentro. Sono con i miei amici, durante l’intervallo post pranzo a scuola. Siamo nel cortile e giochiamo ai supereroi. Il complesso giuoco consiste nel correre qua e là indossando il cappotto solamente tramite il cappuccio, in modo che svolazzi all’indietro come un mantello. Non ricordo se l’abbinamento fra tuta rossa e mantello marrone mi turbasse, ma penso proprio di no.
All’improvviso vengo assalito da un attacco di Diarrea Thriller. Lo avrete senz’altro provato tutti, una volta nella vita, dolore, sudore freddo e la lucida consapevolezza che il tempo stringe inesorabile. Corro verso i bagno, sito all’interno del gigantesco edificio, arrivo alla porta ma vengo bloccato da un raggelante pensiero: non ho la carta igienica!
La carta, a quei tempi, era gelosamente custodita all’interno dell’armadio della classe. Figuro mentalmente il lungo tragitto fatto di scale e corridoio per raggiungere l’indispensabile oggetto, mi viene anche in mente che la chiave dell’armadietto e nelle mani dell’insegnate. Capisco di non avere tempo e in quel preciso momento succede ... sì, insomma, l’avete capito. Patatrac. Tragedia. Caporetto. Infamia.
In preda al panico mi calo i calzoni, cerco di ripulire in qualche modo le mutandine e, saggiamente, decido di usare il giaccone al posto della carta. Marrone su marrone, è questa l’illuminazione a guidare i miei gesti. Torno in cortile come se niente fosse, pronto alla fase due, ovvero la pulitura del giaccone (che, ovviamente, avevo nuovamente addosso).
Lo stendo per terra, nel terriccio e nella ghiaia. Mi ci siedo sopra e lo struscio in terra. Ma ecco l’imprevisto... si avvicina un amichetto:
“Hey, torna a giocare ai supereroi!”
“No, non mi va più”
“E a cosa giochi?”
E qui il colpo di genio:
“Gioco al pic-nic!”
“...”
“Siediti qui con me”
“No, no, io torno ai supereroi”
E se ne va di corsa.
Io proseguo. Fino all’avvicinarsi di un altro bambino. Si chiamava Tommaso, aveva la mia età ma non era in classe mia. Tommaso era noto per il numero impressionante di gigantesche cicatrici che gli solcavano l’addome. Ma ancora di più era noto per farsi la cacca addosso spesso e volentieri. Ovviamente per noi cicatrici e cacca non avevano alcun collegamento. Insomma, Tommaso era un bimbo un po’ sfigato e io me lo trovo davanti che mi chiede, anche lui, “che stai facendo?”.
Riprovo con la storia del pic-nic, lui si siede vicino a me, e poi, con noncuranza, indica un pezzo di cacca attaccato al cappotto:
“Ma questa è cacca!”
“No, ma che dici!”
“Sissì, è cacca, io la riconosco!”
“Sei sicuro?”
“Si, alziamoci”
Ci alziamo e lui alza il mio cappotto.
“È pieno di cacca” dice e poi mi guarda in silenzio
“Correvo e sono caduto, forse sono caduto su una cacca!”
“Sicuramente era la cacca di Black!”
Tommaso mi serve l’assist definitivo! La cacca di Black! Black era il cane del custode. Black, per tutto l’asilo era stato il nostro ‘Uomo Nero’. L’asilo e la scuola elementare erano nello stesso stabile con il cortile condiviso. Io Black lo conoscevo bene, non ricordo che cane fosse, so sole che era enorme, nero, feroce e terrorizzante, una sorta di Cerbero. Nessuno di noi sapeva dove fosse, ma tutti lo avevamo visto e tutti sapevamo che si nutriva di bambini. La cacca di Black oltre a una scusa di ferro fungeva anche da subdola vendetta contro l’infernale quadrupede!
E allora Tommaso mi dice:
“Vieni con me, ti porto dalla bidella che ti aiuta a pulire, dobbiamo dirlo che c’è la cacca di Black, altrimenti altri bambini possono caderci dentro”. Ovviamente a quel punto i miei pensieri erano focalizzati su bambini immobilizzati nella cacca e poi sbranati nottetempo. Che subdolo animale, Black.
Tommaso però non mi porta dalla bidella, mi porta in infermeria, per mano, tranquillo tranquillo. Avvicinandoci sento la bidella pronunciare queste parole “non è possibile, era sporco da tutte le parte, c’era cacca fino a qui! Fino a qui dico!!” Siamo entrati mentre lei ripeteva “fino a qui” e lo ripeteva battendo con il taglio della mano lo stipite della porta. Ad almeno mezzo metro sopra la mia testa. Quest’ultimo dettaglio mi fece rimanere con la coscienza pulita. Nessuno avrebbe capito che ero stato io e poi c’era l’alibi della cacca di Black. Ma poi la sento dire “ma cos’è questa puzza?!” e si gira. Mi guarda. Mi guardo. Guardo Tommaso. Guardo me con la tuta di Snoopy smerdata ovunque. Riguardo Tommaso e lui, guardando la dottoressa:
“è caduto sulla cacca di Black”.
La dottoressa ha annuito e mandato via la bidella mentre questa ripeteva “Ma Black è morto due anni fa!”.
Nessuno ha avuto l’ardire di toccarmi e penso anche di rivolgermi la parola, finché non si è materializzata mia madre. Mi ha preso per mano e mi ha portato a casa. Cuore di mamma. Non ho più memoria di quel tragitto e arguisco non dev’essere stato memorabile. Ricordo però l’arrivo a casa. Mi porta in bagno. Mi mette nella vasca. E mi fa fare subito una doccia. Vestito. Con le scarpe. E la giacca.