Incontro
di occhi lucidi e risposte casuali
Era Caterina ed era trafelata.
“Ho fatto una super corsa! Tanto per cambiare ero in ritardissimo e ho perso l’autobus!”
“Ah”
Bella trovata, vero? “Ah” ma davvero non mi venne in mente altro? Ma vi pare possibile? Fra tutte le frasi fatte, le frasi lette nei libri, gli aforismi, i versi dei poeti, i testi di canzoni, le permutazioni casuali di vocaboli… niente di niente… aprii la bocca e feci uscire l’aria con la pressione necessaria a dire “Ah”.
“Come stai?” chiese, facendo finta di ignorare il mio “ah”.
“Che ci fai qui?”
Sì. Risposi ad una domanda con un’altra domanda. Quel che è peggio fu il tono fra il secco e il duro. Tipo il tono che aveva mio padre quando mi trovava dove non dovevo stare, ad esempio quando facevo sega a scuola ma lui rincasava in orari non convenzionali beccandomi in flagrante.
“Che ci fai qui?” uguale uguale. Sputato. Severo. Autoritario. Quell'autorità da signore d’altri tempi, tipo quegli uomini che usano vocaboli desueti, che portano la macchina all'autorimessa, che volano su un apparecchio, vanno al cinematografo e che, quando prendono il treno, salgono sulla vettura. Quella gente a cui sei portato a dare del lei rendendoti conto che è pure poco e che forse sarebbe più adeguato il coloro. Quelli che ti mettono soggezione solo per come posano lo sguardo su di te, come titani che scrutano le umane miserie. Quello era il tono di mio padre. Quello era il tono che usai con Caterina.
E dovetti usarlo bene, perché lei fece un passo indietro, intimidita, abbassando lo sguardo e mormorando “oddio mi sento così stupida….”
Io ero zitto, la guardavo, teso, imbarazzato.
“Io… io… volevo solo… solo vedere… sapere come stavi…” aggiungendo, quasi parlando da sola, a voce più bassa “ma che ci faccio qui?”
“Sono contento tu sia qui”
Mi stupii di sentirmelo dire, avrei voluto riprendere le parole nell’aria e rinfilarmele di corsa in bocca, masticarle e ingoiarle lettera per lettera e in velocità. “Ho fatto la cazzata” pensai e tutt’oggi rivedendomi la scena, la vedo al rallentatore, come durante un incidente d’auto quando il tempo sembra fermarsi.
Caterina alzò gli occhi su di me, mi guardò per la prima volta, occhi lucidi, mi abbracciò. In realtà mi si buttò quasi addosso. Mi strinse. Piano piano ricambiai l’abbraccio.
“Scusa” le dissi “sono stato un po’ brusco… ma mi hai preso un po’ di sorpresa…”
Lei mi lasciò.
“ehm… scusa… è che non ti fai più vedere da un sacco! Nessuno sa niente di te, tuo fratello fa finta di nulla e si arrampica sugli specchi, e io…. niente…. io… io mi sono preoccupata… e poi hai risposto come uno stronzo al messaggio di oggi… e mi preoccupo di più… e… e mi manchi… no, cioè, no… non intendo che mi manchi-manchi… ma un po’ sì... oddio sono un disastro…”
“no, ma che disastro. Vieni, andiamo a sederci da qualche parte, comodi e al coperto”
E ci incamminammo in silenzio. Almeno esteriormente. Dentro urlavo, ero nella confusione più totale, mi preparavo il discorso dei discorsi dandomi contemporaneamente dell’imbecille cercando di convincermi che la fuga fosse la risposta più adatta.
Capitolo 20
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