Citazione

martedì 28 dicembre 2010

Evolution


L’evoluzione si è fermata al meganegozio di elettronico (Mediaworld, Trony, fate voi). Più percisamente si è fermata al commesso

Intanto il commesso va trovato. Poi si dovrà aspettare. Di solito si aspetta che lui smetta di attendere le decisioni di altri clienti. Lo vedete, il commesso, immobile, mentre i clienti si scambiano frasi tipo “che ne pensi?” “non saprei” “uhmmm” “che dici?” “ma anche forse no” “potremmo...”.

Poi, quando il commesso è tutto nostro, inizia il divertimento. Già, perché siamo in quel negozio per comprare un attrezzo X, che potrebbe essere un lettore mp3, un televisore, un videocitofono, un’auricolare, delle lampadine, un albero di natale vibrante. Noi siamo lì per un telefrullatore digitale. In mostra ne hanno di diverse marche e diversi modelli per marca. Abbiamo già fatto i sorci della rete e pensavamo di sapere già tutto, invece lì davanti andiamo in crisi. Ci serve un aiuto. E il commesso è lì per questo.

“Mi scusi, dovrei comprare un telefrullatore digitale"

"Sono lì. Glieli faccio vedere. Eccoli, i telefrullatori digitali servono per telefrullare digitalmente e...”

“Sissì, scusi, so tutto, non voglio farle perdere tempo prezioso, volevo solo sapere quale sarebbe la differenza fra questi due modelli”

“Eh?”

“... la differenza fra questi due telefrullatori”

Li guarda smarrito

“Vede, questo costa 500 euro di più... su internet però non ho capito la differenza...”

Mi guarda smarrito

“Differenza. Costa di più. Perché”

“Questo è un filips ics cappa ti cinquemila e quello è un filips ics cappa elle quatrocentoventidue bi!”

“Si, si, lo vedo, è scritto sul cartellino... ma, stringendo, quali sono le differenze? Perché il quattrocentoventi...”

“quattrocentoventidue bi, filips ics cappa elle”

“Sì. Costa di più”

“È digitale”

“Anche questo”

“Ma questo è multiemulsionante con motore stereo asincrono!”

“Ma qui c’è scritto che lo è anche quest’altro...”

“Fammi vedere... è vero. Forse questo ha lo sfigomanometro isometrico integrato...”

“Non saprei, a che serve?”

“Se c’è è meglio”

“Uhm... però non c’è scritto in nessuna delle due etichette”

“Io a casa c’ho questo, comunque è un sacco fico” E indica il più costoso.

“... e le differenze con il paionir ics gei doppiavù trentuno?”

“meglio filips”

“Bene... però mi sa che prendo l’altro. Tanto dello sfigoblablabla non m’interessa...”

“Questo non lo abbiamo”

“Ma è qui esposto!”

“Si, però non lo abbiamo”

“...”

“Quale avete?”

“Ora vado a controllare”

Lo guardo smarrito

lettura elettronica


Un po’ di tempo fa mi è stato regalato un e-libro. Il libro elettronico lo stavo sorvegliando da un po’, oggetto interessante: in un rettangolino di plastica puoi portarti dietro tutti i libri che vuoi per un peso complessivo inferiore a quello di un tascabile. Non male se hai limiti di peso o di spazio. La facilità di lettura poi è la stessa della carta, di molto superiore quindi a quella di qualsiasi schermo di cellulare, computer o ipad, checché ne dica Steve Jobs. 

Mentre valutavo se affrontare l’acquisto o meno, un’anima gentile me ne ha fatto dono e, dopo alcuni mesi di uso direi abbastanza intensivo, posso dire che si tratta di una gran bella invenzione (e di un gran bel regalo). Potersi portar dietro tutti i libri che vorresti leggere e non avere più la pila di libri polverosi sul comodino è un vantaggio notevolissimo e la batteria dura millenni. Insomma, è come un lettore mp3 di quelli molto capienti. Una bellezza.

Cos’hanno di più i libri normali? Che puoi buttarli nella sabbia, bagnarli, dimenticarli, lasciarli di proposito in giro, sottolinearli, scarabocchiarli... insomma, il libro di carta puoi maltrattarlo. Il libro elettronico no. O magari non ancora. Però è più portabile e puoi cambiare le dimensioni dei carattere a piacimento.

Fra l’altro, grazie all’e-libro sono riuscito a recuperare libri che cercavo da anni senza successo.

lunedì 20 dicembre 2010

le dimensioni che contano


Due filmati dedicati a chi pensa che i suoi problemi siano giganteschi, opprimenti e insuperabili ma anche a chi si ritiene insostituibile, necessario, fondamentale.



venerdì 17 dicembre 2010

Non tutti sanno che... #5


Il diluvio universale cominciò il 17° giorno del secondo mese.

I Pitagorici avevano in orrore il numero 17 perché si trovava in mezzo, a rompere le scatole, fra il 16 e il 18 ritenuti perfetti nella loro rappresentazione geometrica.

I numeri 17, 18 e 19, dopo la battaglia di Teutoburgo fra Romani e i Germani di Arminio, vennero ritenuti infausti e mai utilizzati per numerare le legioni.

Pare anche che, in epoca medioevale, la gente confondesse l’incisione VIXI (Vissi) presente sulle tombe antiche con il numero 17, forse perché 6 (VI) più 11(XI) fa 17.

Per tanti altri il giorno infausto è il venerdì 13. All’ultima cena erano in 13. Al banchetto. Nelle società matriarcali l’anno era composto da 13 mesi di 28 giorni e sappiamo che fine abbiano fatto queste società. Persino per gli Indù un raduno di 13 persone è da evitare. Per i greci, il 13 aggiungeva un’unità fastidiosa alla perfezione del numero 12, associato ai mesi, ai segni zodiacali e via dicendo.

E poi passiamo al venerdì... Venerdì fu crocefisso cristo, si dice essere pure il giorno in cui Adamo morse la famosa mela e in cui fu distrutto il tempio di Salomone. Aggiungiamo pure che il venerdì è il giorno dedicato alla divinità femminile (Venere e venerdì per i latini, Freya da cui il Freitag tedesco e il Friday inglesi).

Sono ammessi i gesti apotropaici.

venerdì 29 ottobre 2010

bunga bunga


ora, ecco, io... io... ecco... è che... no... adesso, voi, io, ecco. 

...

...

Io non ce la faccio. BUNGA BUNGA. Credo non serva aggiungere altro.

bunga bunga...

cristo

sabato 23 ottobre 2010

pupazzo


Lo dico? Lo dico. I finiani mi fanno più pena dei piddini. L’ho detto.
C’ho pensato tanto. I piddini, in fondo, hanno il callo. Quanti anni sono che la sinistra è sempre meno sinistra? Insomma, quando dopo D’Alema devi pipparti Veltroni, poi arriva Bersani ma riciccia anche Veltroni e tutti a far a gara a chi resuscita meglio Berlusconi... insomma, ormai lo sai che sono una banda di poveretti e/o di disgraziati. Ma, amici piddini, mettetevi per un attimo nelle scarpe del tifoso di Fini.

Ora, tu sei lì, bello bello, il governo del fare che hai votato perché facesse, sta facendo. Sono quindici anni che fa. E a un certo punto, sul più bello, scopri che il governo più democratico della storia della democrazia è guidato da un vecchio pornomane che fa esclusivamente i cazzi suoi (ovvero nasconde i propri scheletri nell’armadio), che se li è sempre fatti e che conta di farsene sempre più in abbondanza. Lo scopri così, d’amblé, dopo 15 anni. 

È come risvegliarsi da un coma. Pensate. Vi addormentate oggi, vi risvegliate fra 15 anni. Brutto, cazzo. Scopri che tutto quello in cui hai creduto è stata una presa in giro. Scopri anche che i tuoi nemici non lo sono poi così tanto, che, in fin dei conti, tutti i torni non ce li avevano. Anzi, scopri che i tuoi (ex)amici sono i primi a volerti saltare alla gola.

Beh, meglio tardi che mai, ti dici. Ora non si torna indietro, si fa sul serio, si prende coscienza, si fa la destra moderna ed europea. Ora si fa tutto. Ma poi il tuo leader, a parole tanto piccato, a parole tanto coerente, a parole tanto combattivo, continua ad agire esattamente come prima. Scudi e controscudi.

Ecco, caro piddino, sentirsi un pupazzo è peggio che essere in un partito di pupazzi.

martedì 5 ottobre 2010

il finto tale


Cos’è il genio? La definizione migliore è questa: È fantasia, intuizione, colpo d'occhio e velocità di esecuzione. Tanto per cambiare, non è mia ma viene da Amici Miei.

Penso sia tanto efficace quanto difficile da capire fino in fondo. Il genio, in effetti, è solo quello che pensa qualcosa prima degli altri e sempre prima degli altri la esegue. C’è il genio distratto che è quello che alle cose ci pensa, ma poi non le fa (genio distratto)... che forse è solo pigro oppure la sua mente è talmente elevata rispetto alla materia da aver paura di sporcarsi (genio mistico)

Pensate, magari nel mondo c’è una persona che ha avuto un’idea totalissima, tipo ricavare corrente elettrica in grande quantità dal muco e, magari, durante il processo di trasformazione, la materia prima (il muco) smette anche di essere un orrenda scoria ligneofisiologica limacciosa e filamentosa (magari diventando un bel tubicino gommoso e blu elettrico). Ecco, uno, da qualche parte del mondo, magari in Uzbekistan, ha questa idea. Questo genio Uzbeko ha quest’idea, poi però vede una pubblicità con una seminuda seduta a cavalcioni su un materasso che dice “ancora assorbenti di questi dimensioni?” e gli viene in mente che gli assorbenti non servono perché... che ne so... il genio è lui. Insomma, è chiaro, no? Lui ha un’idea geniale, si distrae pensandone un’altra e la prima è svanita, poi magari arriva il suo autobus, cerca il biglietto e si scorda anche la seconda idea. Oppure è solo pigro, si annota mentalmente di realizzare l’idea ma, arrivato a casa, si dice “ora mi metto al lavoro, ma prima mi faccio una doccia” e dopo la doccia “ora mi metto al lavoro, però prima fammi vedere un po’ di tele” e mentre vede la tele passa il suo migliore amico e lo porta a bere e quando torna a casa di notte ha sonno, va a dormire, poi va al lavoro e poi si è scordato i dettagli e non ha voglia di passare un pomeriggio a ricordarsi questa cosa e non ci pensa più. 

Oppure, ecco, gli viene l’idea e il pensiero che un giorno l’umanità potrà farcela gli mette buonumore e riprende a recitare i suoi mantra. 

Non dimentichiamoci anche l’esistenza del genio inconsapevole, cioè il genio che ha idee geniali che a lui non sembrano tali e quindi se ne frega e va oltre.

Poi c’è il finto genio. Quello che ha un’idea solo dopo aver letto/visto/sentito quella di un genio vero. Anche in questo caso, c’è il finto genio vero (che non ha l’idea per secondo ma la realizza per primo) che serve come il pane. Pensate al genio uzbeko che va a bere con l’amico, gli racconta l’idea e l’amico tornato a casa invece di dormire mette tutto in pratica... e senza di lui l’idea geniale dell’amico sarebbe morta! Insomma, ci arrivate anche voi a intuire il valore sociale del finto genio vero, no? È una specie di piano b. Le cose stanno così, c’è un’idea geniale. Quest’idea può venire a chiunque. Ad esempio se venisse, tipo, al mio vicino di casa, l’idea geniale si tradurrebbe in una barzelletta scollacciata e morta lì. È andata male. Ma l’idea geniale può venire al genio. Ma, come abbiamo visto, si fa presto a dire genio... magari è un genio scordarello o un genio mistico e quindi addio... ecco... ma la natura che è sempre piena di risorse ha escogitato quest’ulteriore rete, se il genio è scordarello, mistico o inconsapevole potrebbe sempre avere un amico finto genio vero che realizzerà l’idea!

C’è anche il finto genio vero subdolo, ovvero quello che rivende l’idea di un altro a un gruppo di persone a cui l’altro non ha accesso. E si fa bello con le cose degli altri. C’è anche il finto genio frustrato. Quello che legge-sente-vede una cosa che reputa geniale (magari la fonte è pure un finto genio), gli viene per un attimo l’idea di farla propria ma poi non fa più niente perché si deprime per non avuto lui l’idea, s’immagina farsi il grosso con gli amici e gli vengono pure i sensi di colpa. E quindi il finto genio frustrato è come un finto genio distratto/pigro/mistico.

E poi c’è la categoria super affollata dei finti geni finti.

mercoledì 29 settembre 2010

domanda


Nessuno mi ha ancora spiegato perché la pena di morte sia uno schifo che giustifica appelli internazionali, pressioni dei governi e dita di sdegno puntate solo quando applicata in Iran (con corde o pietre pare non fare molta differenza). Qualcuno mi risponde?

E non rompete con la gravità del crimine che ho poca pazienza...

martedì 28 settembre 2010

citazioni


Sono molto sorpreso dalle parole di Bossi. Mai lo avrei detto capace di citazioni letterarie ad esempio.

Con l’eleganza che da sempre lo caratterizza, l’Umberto ha citato e aggiornato nientemeno che gli ottimi Uderzo e Goscinny. No, no, non ridete. L’Umberto ha dovuto scegliere, fra le mille e mille possibilità che la sua ampia conoscenza letteraria gli offre, la citazione più adatta per farsi capire financo dal figlio, adattandola contemporaneamente ad un lessico più comprensibile. Il trota ne ha infatti riso, non sappiamo se per aver colto la citazione o semplicemente per la parola “porci”. 

La citazione è avvenuta da un palco importante, ovviamente, quello di Miss Padania a Lazzate. 

Il motivo? È arrabbiato per il gran premio di Roma, che a detta sua dovrebbe essere corso con le bighe (mica male come idea... altro che Palio di Siena!) per non oscurare quello di Monza.

Ora, caro Umberto, io non so come dirglielo, ma i Romani a tutta questa baracconata del gran premio ci rinuncerebbero volentieri, come rinuncerebbero ai ministeri e come rinuncerebbero pure a darle lo stipendio.

Vede, se fosse per me, io non Le darei importanza. In fondo io La capisco: era a Lazzate che poteva dire? Che diavolo gli vuoi raccontare al pubblico di Miss Padania? Esaurite le solite cose, ovvero, che avete il pisello duro e verde, che andate a Roma a prendere tutti a calci in culo, che poteva dire? Su quel palco o parli di figa, o parli di macchine (agricole e non) o di personaggi dei fumetti. Anzi, Le do atto che citare Asterix, per Lei che ha il vezzo di ritenere i padani discendenti dei celti, è una citazione di puro genio!

Perché, caro Umberto, io lo so che Lei non ci crede. Lei si rende conto di rivolgersi a una platea di disperati quando va bene e di minorati o farabutti quando va male. Lei sa bene che si aspettano quello e Lei rispetta il ruolo che le è stato imposto e che Le dà il pane... è un po’ come una Rock Star: prigioniero del suo personaggio, che è insieme fortuna a maledizione.

So bene che non potrà mai dire ai suoi fan la verità. Non potrà mai dire che col federalismo fiscale, l’unica cosa che riporterà al nord sono i debiti dell’evasione fiscale. Non potrà mai dire che Lei e i suoi siete ben attaccati alle mammelle di Roma Ladrona ed è per questo che questi calci in culo sono così lenti ad arrivare. In fondo non potete dire chiaramente che tutto l’odio per la capitale era dovuto semplicemente a un moto d’invidia e che, ora che siete voi a campare a ufo, va bene così. Lei questo non lo può dire perché l’abbandonerebbero, La considererebbero un vecchio rincoglionito che farfuglia stronzate incomprensibili. 

Ovviamente però ha bisogno di valvole di sfogo, se le costruisce così. Lancia messaggi ambigui come chi loda il suo interlocutore ma in realtà lo sta insultando senza farsi scoprire. È come quando stai smontando le tesi di un cretino patentato e usi intercalari come “lei m’insegna”, “come lei sa bene”, “un uomo acuto come lei avrà già capito...”. Lei non è come Sgarbi che dà apertamente del pezzo di merda a uno, poi ha paura e si arrampica sugli specchi spiegando che “pezzo di merda” non è una frase offensiva bensì ben augurale.

Lei è più sottile. Lei vezzeggia i Suoi elettori dicendo chiaramente a tutti gli altri “non ci credevate mica che erano COSI’ coglioni, eh?” e non deve rimangiarsi niente. Perché Lei dice cose che ad una mente semplice come il Trota suonano come figate da übermensch leghista (romani porci!) ma a al resto del mondo fa capire che per lei i riferimenti del “suo” popolo sono giusto Asterix e Obelix, che non merita altro allocco com’è. Che dire altrimenti di camicie, giacche e cravatte verdi? I padani non si sono accorti della presa per i fondelli nemmeno davanti al GESSATO VERDE di Calderoli! Lo hanno preso per un serio campione d’eleganza celtica!

Io invece penso di averlo capito, caro Umberto, lo dico senza finta immodestia perché è una vita che prova a farci capire che è tutta una burla, anzi, meglio, che sono tutte Lazzate!

martedì 14 settembre 2010

rockoccodrillo


Di tutta l’attuale querelle politica ho notato una cosa in particolare. Berlusconi è diventato grassissimo. Non ha più il collo, la faccia inizia a cedere, guardate la ruga sulla destra, la vostra destra, quella che dall’occhio arriva al mento. In più ha una panza da lottatore nella birra. Se potete, notategli anche le mani, le poche volte che sono chiaramente in vista, grigie, raggrinzite, da vecchio... non da anziano, non da settantaquattrenne, ma proprio da vecchio orrendo. Resistono solo i capelli disegnati.

Come disse uno riguardo alla storia estetica di Michael Jackson, se questo è il fuori, cosa è successo dentro? Il decadimenti fisico come specchio di un decadimento a 360°, di una fine, di un marcio che alla fine, nonostante belletti, profumi e maschere viene sempre fuori.

Dando tempo al tempo i conti tornano. Il nano ingrassa e invecchia, tutto in una volta, e il suo potere scricchiola e collassa. I topi abbandonano la nave, chi prima, chi dopo a seconda della distanza dal formaggio o a seconda delle possibilità di salvarsi (leggi: riciclarsi) che per la politica italiana è ampia a patto di avere lo stomaco di un Capezzone. Alcuni sorci non potranno abbandonare la nave, lo sanno, per loro non ci sarà nessuna scialuppa. L’unica possibilità è di arrampicarsi sull’albero maestro, per affondare per ultimi e godersi l’aria (e il formaggio) per più tempo possibile.

A prescindere da come andrà nella pratica la campagna acquisti post Ibraimovich, perché, inutile nascondersi, tappare una falla non è mai una soluzione a lungo termine, ci aspettano altri 50 anni di Democrazia Cristiana, sperando che qualche super potenza ad alta vocazione democratica (tipo Russia o USA) ci foraggi per essere baluardo contro l’avanzata dell’orda sinoislamica in occidente. 
Immagino che nemmeno voi vorreste vedere i cavalli dei seguaci del profeta con gli occhi a mandorla abbeverarsi nelle fontane di piazza San Pietro...

Oppure mi sbaglio ed entro 2 mesi arriverà la cavalleria libica guidata da Maroni a liberare il paese da ogni parvenza di democrazia, in un rigurgito di nostalgia di Khomeini.




mercoledì 8 settembre 2010

The Expendables


È il film che tutti a 15 anni abbiamo sognato. La rissa reale con tutti gli eroi dei film d’azione. Ce lo ritroviamo abbondantemente superati i 30 e con i nostri eroi erosi dal passare del tempo e dagli effetti collaterali degli anabolizzanti. Mancano nomi importanti all’appello, attori del calibro di Mr. T, Chuck Norris, Steven Segal, Van Damme (questi utili due hanno gentilmente rifiutato perché non si prestano a queste stronzate, loro), Jackie Chan e ci avrei visto bene pure una comparsata d Henry Rollins.

Ma insomma, com’è ‘sto film? BELLO, senza se e senza ma. C’è tutto quello che avresti amato a 15 anni e che avresti voluto vedere in un film del genere. Anzi, c’è tanto di più. Ma tanto tanto. Con una tale profusione di testosterone le donne escono dalla sala gravide o con la barba. Non c’è niente da fare. Stallone, che a giudicare da com’è messo non sopravvivrà agli steroidi per altri 5 anni, certe cose le fa fare. Fa scoppiare tutto, fa esplodere corpi, teste, facce, case, camion, villaggi. Davvero, non si può chiedere di più. Ci sono un paio di scene da NOBEL del cinema, prima fra tutti l’insensata e pretestuosa riunione con Bruce Willis e Schwarzenegger (e provatelo a scriverlo giusto voi, senza consultare google). Schwarzy nonostante il trucco, le luci giuste, la computer grafica e tutto il tempo del mondo, è un ormai un vecchio scorreggione... però quella scena con loro tre che battibeccano è quello che tutti gli adolescenti del mondo hanno sognato e agognato per anni.

Dimenticavo, nella lista dei vari lavoranti che hanno reso possibile questo immenso spettacolo c’è un brasiliano che si chiama Cacalo. Non so chi sia, ma gli sono vicino.

martedì 7 settembre 2010

du' palle


È come il primo giorno di scuola. Non dico proprio il primo primo, ma il primo dopo le vacanze. Quando sei spaesato, col morale sotto le scarpe, ritrovi i tuoi compagni ma la testa è altrove. Guardi i 4 muri che hai attorno ben conscio della differenza fra vita e non-vita. Manco a dirlo, quelle quattro e brutte mura sono il simbolo della non-vita. Del tempo sprecato. Degli impegni che riprendono ad accumularsi per il tempo che improvvisamente sparisce... insomma la solita solfa.

Come per il primo giorno di scuola, dopo un momento di iniziale smarrimento, scopri che fuori dal tuo mondo non è successo niente. Il mondo è esattamente al punto in cui l’avevi lasciato. E, sì, la puzza è esattamente quella di prima.

E comunque, per prepararmi al meglio a questo nuovo anno, mi sono rivisto il primo Fantozzi.

Ps. Come avrete notato tutti, il sito è sempre questo, non ho fatto niente, la promessa versione 3 di Rumenta non è ancora pronta chè ho avuto altro da fare, io.

lunedì 26 luglio 2010

bavaglino


La stampa se la sono comprata tutta tranne quella contro che tanto i voti non glieli porta e non glieli toglie e la cui presenza serve per poter dire “cazzo vi lamentate? Siete pure liberi di sentirvi Santoro!”.

Hanno fatto pure la legge sul bavaglio che è stata una mossa spettacolare. Hanno detto “I giudici non intercettano e i giornalisti non possono scrivere”. I giornalisti si sono incazzati e pure giustamente. Non li fanno scrivere. Bavaglio, bavaglino, Maledetti! State a vedere che, grazie al compagno Fini, ora permetteranno ai giornalisti di scrivere. Peccato che le intercettazioni, su un piano pratico, non si potranno più fare. Sei libero di scrivere di una cosa che non avviene. E vedete se Fini non risulterà essere pure un paladino della libertà. Lui che è così allergico a ladri, mafiosi e puttane da essere in combutta con Berlusconi dal ’94. Lui che difenderà col suo corpo la sacralità dello stato. Lui, il fascista con la kippa in testa. Quello che Mussolini è una grande statista e il fascismo il male assoluto. Sempre lui, quello che alle poste aveva il record di raccomandazioni.

Anche perché, poi, quando l’informazione è in mano a gente come Minzolini una legge che vieti ai giornalisti di pubblicare le intercettazioni a quantomeno pleonastica. Però resta un pericolo, ovvero Internet. Su internet chiunque dice quello che vuole, chiunque legge quello che vuole, chiunque contesta quello che vuole, la legge dei grandi numeri fa il resto.

Internet questi giovanotti non l’hanno mai capita. È anche giusto così. Mio padre è coevo di Berlusconi. Io lo vedo, lo conosco. È uno che dopo aver fatto un foglio con excell (e dubito che il capellone di Arcore sia altrettanto capace) lo stampa e ricontrolla a mano i conti. È uno che dopo aver mandato un’e-mail la stampa per conservarla. L’altro giorno era sconvolto perché su google aveva trovato delle informazioni su un francobollo sconosciute persino al suo catalogo Bolaffi. “Che strumento incredibile!” ha commentato. La meraviglia del fanciullo. 

I nostri governanti sono a malapena più giovani, pensate che il capo dell’opposizione, quello vero intendo, quello coi baffi, ha il vezzo di definirsi un uomo dell’800 totalmente estraneo alla tecnologia. L’opposizione, la sinistra, quelli che guardano il futuro.

Insomma, dicevo, questi di internet non hanno capito niente, l’hanno sempre presa sottogamba, al più l’avranno vista come una miniera di donne nude... ma forse nemmeno questo visto che Fede al suo capo passa pesanti book cartacei. Comunque... su internet si può far poca censura... intendo oltre impedire fisicamente l’accesso alla rete non costruendo adeguate infrastrutture (e guarda caso è proprio questo il governo delle tre i che ha tagliato tutti gli investimenti sulla banda larga)

Non voglio fare un’apologia della rete, non voglio fare la fine di Grillo che vede in internet la salvezza del mondo, però su internet il tuo concorrente (o avversario) è a un click di distanza. Puoi diffondere notizie false, ma chiunque può sputtanarti, in qualsiasi momento, facendo leva sulla memoria intrinseca dello strumento. Ad un certo punto, qualcuno ha fatto capire che questo non va bene. C’è troppa gente che può dire la sua e dirla in modo efficace e soprattutto essere ascoltata cosa. Non può andar bene, e allora via di bavaglino!

Rumenta, lungi da considerarsi una fonte di pensieri acuti, tantomeno un francesissimo dito nel culo del potere, aderisce comunque all’appello per garantirsi il diritto fondamentale di dire quello che vuole, quando vuole e come vuole, come ha sciaguratamente sempre fatto a sfregio delle più basilari leggi di grammatica, ortografia, buonsenso e financo perdendo la vergogna.

E chiudo ritornando al compagno camerata Fini, quello che voleva il nobel per internet...

martedì 13 luglio 2010

inni irrazionali


Entro anch’io, pur tardivamente, nella querelle sull’Inno d’Italia. 

L’inno di Mameli a me non ha mai fatto impazzire. sono pure più di 150 anni che aspetta di diventare ufficiale. Alla fine, per un Paese unito con la forza, in una Repubblica molto traballante, l’inno provvisorio ci sta, ci rappresenta. Mazzini lo trovava troppo orecchiabile e retorico. E come dargli torto? Lo cambiamo? E cambiamolo, ma con cosa? I leghisti si sono fissati con Va, Pensiero, il notissimo coro presente nel Nabucco di Verdi.

Altri, ben più pazienti e dotti del sottoscritto, hanno provato a spiegare che Va, Pensiero è il canto degli Ebrei prigionieri in Babilonia. Van bene tutte le metafore e le riletture che vuoi, ma quanto può rappresentare l’Italia? Oltretutto è palloso e mi perdonino i fan verdiani. Soporifero per soporifero, tanto varrebbe ripristinare l’inno dello Stato Pontificio (Noi Vogliamo Dio), non foss’altro per una ragione storica e geografica. I leghisti non si sono dichiarati i nuovi baluardi del cattolicesimo? Quindi sarebbe perfetto.

Tornando a Mameli, io sarei per istituire un esame per diventare rappresentate delle istituzioni. Poche domande ad esempio sulla costituzione, sulla storia recente d’Italia e anche sull’inno. 

È noto che gli Italiani non conosco mai i versi delle canzoni che seguono il primo ritornello. Fate una prova, chiamate un vostro amico e chiedetegli di cantarvi Nel Blu Dipinto Di Blu (se facesse scena muta, chiedetegli Volare): vi dirà che da bimbo si ritrovava a volare nel cielo infinito, volare oh oh volare oh oh e poi nell’occhio gli apparirà la fissità dell’ottuso. 

Lo stesso discorso vale per l’inno. Tutti conosco solo la prima strofa. Tutti, compresi i politici. Come già altri hanno fatto notare, i nostri amici verdi dovrebbero andarselo a leggere perché la parte interessante arriva proprio qui, quando si parla di Italiani che non sono un popolo e che sono stati calpestati per secoli, che unendoci sotto un’unica bandiera dalle Alpi alla Sicilia sarà tutta una Legnano, ogni tromba suonerà i Vespri, tutti i bimbi saranno Balilla (no, non c’entrano quelle vaccate di Mussolini) e tutti gli uomini Ferrucci. Si, retorico oltre la soglia dell’accettabile, aveva ragione Mazzini.

Orsù, cambiamolo quest’inno. Mi va bene. Vorrei anche provare a dare il mio contributo e suggerire un canto che è già inno e già appartiene alla nostra tradizione. Un inno all’italianità, a tutti gli aspetti più peculiari che il mondo ci riconosce. Un inno allo star insieme e alla spensieratezza. Basta cambiare una parola. Sostituire il nome di una città con Italia. All'autore, sono sicuro, andrebbe bene.

Signore e signori, la proposta di Rumenta per il nuovo inno della Repubblica Italiana:


venerdì 2 luglio 2010

vado a vivere in campagna?


Sono sempre stato un topo di città. In fondo, pensavo, perché tante genti dovrebbe spostarsi dalle propaggini estreme dell’impero verso la capitale se non per vivere meglio? Perché i barbari sono 1500 anni che insistono tanto per occupare Roma? Perché Napoleone e Garibaldi non si sono fatti i cazzi loro, lasciando il papa-re sul sedile ereditato dai sette re?

La mia mente semplice di ragazzino aveva elaborato la risposta più ovvia: perché la città più è grande, più è ganza. Crescendo questa convinzione è diventata dogma. In città hai tutto a portata di mano, in città hai tutti i servizi che vuoi, in città funziona tutto... cioè, in città fuori dall’Italia funziona tutto, in città in Italia non funziona bene niente, quindi se sei in Italia ma non sei in balia degli elementi come un nomade perso per le steppe della Mongolia.

Tutto il mondo esterno alle città andava bene per fare delle gite, un soggiorno breve, una ricca mangiata o una manciata di fotografie. Bello qui, ma pensa l’inverno quando pioggia e vento sferzano le finestre!

Poi invecchi, vai a lavorare. Hai i colleghi che vivono in campagna e ti sfottono perché loro sì, si godono la vita. Gli fai notare che si fanno 2-3 ore di macchina al giorno e che tu, se vuoi, vai al lavoro a piedi. Ti ribattono che loro, quando arrivano a casa, si godono il prato. Ribatti notando, con pignoleria, che loro il prato non se lo vedono, perché rincasano dopo il tramonto. Ma loro hanno la risposta pronta e ti dicono che sabato e domenica, se vogliono, stanno sbragati a 4 di spade a godersi l’aria aperta. Non fai una piega. Hai parchi immensi a pochi minuti di strada, altrimenti prendi l’autobus e in pochi minuti sei in pieno centro storico.

Nel profondo del cuore sai che menti sapendo di mentire, e sai anche che pure loro mentono spudoratamente, perché farsi 50 km in prima è roba da girone dantesco e che 2 miseri giorni sbragati sul prato non compenseranno mai tutta la merda che si respirano per 5 giorni a settimana. Che tutto il tempo che perdono in macchina lo hanno solamente buttato.

Sai anche però che i tuoi “pochi minuti” di mezzi per andarti a godere il centro città sono una chimera perché ogni spostamento (che sia in macchina o con l’autobus) può trasformarsi nel peggiore incubo possibile. Sai che respiri le peggiori nefandezze che esistano al mondo. E che lo fai tutti i giorni. E che il mandarino cinese che hai sul balcone non riuscirà mai a renderti l’aria migliore. Sai anche che vivi nel casino più totale e che per quanti strati di vetro tu metta alla finestre a svegliarti sarà sempre un BIIIIP o un “malimortaccituaedetunonno!” e mai un dolce cinguettio.

Cinguettio. Sai anche che il massimo del bucolico che potrai permetterti sarà il “cru” dei piccioni che piccionano in bilico sulla serranda della finestra (meringandoti nel frattempo la macchina).

Vivere in un centro piccolo, ma lavorare in una metropoli è demenziale, forse più che abitare direttamente in mezzo alla metropoli. Non sarebbe una via di mezzo, non sarebbe né carne, né pesce. Questa è verità, pura e sacrosanta. Però come sarebbe vivere e lavorare in un piccolo centro? Resti attaccato all’idea che sia brutto.

Se voglio, ho i negozi sotto casa, non devo prendere la macchina, io, se mi finisce la carta igienica. È vero. Ometto però che il negozio sotto casa, di solito, è più cari di un posto in paradiso. 

Per cui sali in macchina macchina, ti fai 5 ore di traffico infernale, vai in un centro commerciale, fai a botte con chiunque, ti perdi nel parcheggio e torni a casa pensando a come sei caduto in bassa e giuri a te stesso che mai e poi mai ci ritornerai. Promesse da marinaio.

Ad un certo punto, ho iniziato a capire che l’unica vera marcia in più di una grande città è legata agli eventi culturali che può offrirti. Teatri, cinema, mostre, eventi, musei, concerti, rassegne, corsi di qualsiasi cosa. Ok, sono cose che ti godi più da vecchio, quando hai tempo da occupare e non paghi nemmeno, però in un centro piccolo hai tutto a scartamento molto ridotto (con le dovute eccezioni), a meno di non puntare sui talenti locali o addirittura fomentare tu un certo movimento. Ma, alla fine, quante mostre si vanno a vedere in un anno? 2? 3? Nessuna? Quanti film irrinunciabili? Quanti concerti? Quante volte al teatro? E cos’è uno spettacolo a teatro davanti a una vita più sana in un luogo fatto finalmente a tua misura? Ecco. Questo è stato l’ultimo scoglio.

La conclusione è che oggi, senza il vincolo del lavoro, io dalla città più bella del mondo me ne andrei ora. Ma proprio subito. Puff! Sbuffo di fumo. E sono... boh... da qualche parte dove ci sia un mare degno di questo nome, gente cordiale e cibo buono. Anche perché, se si deve cambiare, occorre farlo in meglio. L’alternativa è una bella pioggia di fosforo bianco sulla capitale. Mentre sono in ferie.

mercoledì 30 giugno 2010

tedeschi


Non ero troppo piccolo, avrò avuto 11-12 anni. Era settembre, tempo di vendemmia e proprio durante una bella giornata di raccolta delle uve si sono svolti i fatti che sto per narrarvi. Il luogo del misfatto è Monte Compatri, amena locali dei castelli romani, nello specifico la vigna del mio amico Gigante.

In realtà, la vigna era del papà di Gigante e ogni periodo di vendemmia era usanza, per diversi amici di famiglia, partecipare al rito agreste. Un bel pomeriggio all’aria aperta, cesoie, tanto sporco, una bella pasta aglio e olio e tante risate.

Ai bambini, categoria in cui eravamo fortunatamente ancora inseriti, non era richiesto molto, dare una mano se volevano ma, tendenzialmente, stare fuori dalle balle e creare meno problemi possibile. I bambini, normalmente, partecipavano alla vendemmia per i primi 30-60 minuti, poi, esaurita l’eccitazione per la novità, si dedicavano ad altro.

Quella volta eravamo solo in 4: Gigante, io e i due tedeschi. I tedeschi non erano davvero tali, non avevano nulla a che fare con la Germania, non erano nemmeno biondi, alti o con gli occhi azzurri. Erano soprannominati tedeschi per il loro fastidioso ordine. Sempre precisi, bravi, educati e sostanzialmente molto pallosi. Il fatto che la madre di Gigante e la mia non facessero che lodarli ce li rendeva ancora più invisi.

Comunque sia, ci troviamo in 4 ragazzini in mezzo a una vendemmia. Stufi ai di raccogliere grappoli sia di discorsi alti, come ad esempio la macroeconomia socialista del villaggio dei Puffi. Che facciamo allora? Giochiamo e il gioco va avanti, cresce, si nutre di sé stesso, finché i tedeschi, ispirati da qualcosa, non hanno un’idea geniale: “facciamo la guerra con l’uva!”.

A quel punto è tutto finito. Iniziamo a tirarci addosso prima gli acini, poi i grappoli interi, stufi di dover prendere la mira ci lanciamo in assalti suicidi, tutti contro tutti, con tuffi in trincea, salti e recuperi. Un divertimento senza fine. Un divertimento senza fine ed igienicamente esecrabile.

Al momento della chiamata all’appello per tornare alle nostre vite, ci presentiamo lerci come solo dei cani bagnati che corrono e si rotolano nella sabbia possono diventare o, se preferite, solo come dei bambini in campagna possono ridursi.

Sorvolo sugli insulti dei rispettivi genitori, sappiate che furono maggiorati per me e Gigante perché rei di aver condotto anche i tedeschi verso la perdizione. Abbiamo anche provato una linea difensiva, solida come solo la verità può esserlo dicendo “Ma è stata una loro idea!”. Siamo stati anche chiamati bugiardi. Ricordo un viaggio di ritorno immerso in un mostruoso silenzio, seduto immobile sul sedile posteriore di una Fiat 132 avvolto, per l’occasione, in fogli di giornale.

Diverso tempo e insulti dopo, sentii la mamma di Gigante raccontare alla mia “Lo sai che alla vendemmia, l’idea di quel gioco così l’avevano avuta sul serio i tedeschi? Rumenta e Gigante non c’entravano niente... chi l’avrebbe mai detto!”.

lunedì 14 giugno 2010

avventura a venezia


Ancora una volta a spasso per Venezia con la volontà di evitare i soliti posti. In una calle a caso, veniamo apostrofati da una signora anziani:
“Andate a San Marco?”
“No.”
“Ah... perché se andate di là vi perdete e fate un giro lunghissimo... di qua fate prima”
“Bene, ma noi non stiamo andando a San Marco, ci piace perderci e vedere parti nuove della città”
“Bravi! Anzi, già che ci siete, venite a vedere il mio campo... venite... è qui dietro... c’è la casa del boia. Non c’è scritto da nessuna parte, ma è bella”

La seguiamo fino a una piazzetta carina, ma niente di più, con due palazzoni alti e scrostati oltre l’accettabile e una casetta a un piano rosa. La casetta rosa è la presunta casa del boia.

“Io abito qui” dice la signora indicando uno dei due palazzi scrostati. “Ieri c’erano due francesi che hanno detto ‘io qui non ci abiterei mai’ allora mi sono arrabbiata, perché a Venezia non puoi giudicare dall’esterno... poi voi mi sembrate bravi ragazzi... volete vedere una vera casa Veneziana? Venite su, vi faccio vedere casa mia!”

Noi l’abbiamo seguita, pensando a come affrontare gli energumeni malintenzionati che sicuramente avremmo trovato dietro la porta.

Si apre il portone, un pozzo del 1300 lì, in bella mostra di sé, nella tromba delle scale. Saliamo le scale, la signora ci apre la porta. Niente energumeni ma una casa enorme, con un salone con doppia finestra gigante con affaccio sul Canal Grande e affresco del 1200 (a detta della signora) su una parete.

E niente energumeni.

venerdì 4 giugno 2010

civiltà


Non è per portare sempre tutto al livello dei visceri, ma voi barattereste un ottimo piatto di lasagne, la carbonara, il prosciutto crudo, la fiorentina, la ‘nduja, la pizza, i maritozzi con la panna, la caponata o le zucchine ripiene con la civiltà?

Ci avete fatto caso? Più aumenta il grado di civiltà di una nazione più si perde il gusto di mangiare roba invitante, sana, nutriente e soprattutto assai buona al gusto e varia nei sapori.

Che ne so, Olanda e Scandinavia sono delle zone comunemente indicate come estremamente civili, dove tutti osservano le regole, pagano le tasse e si fermano al semaforo rosso... ma poi vai a vedere cos’hanno nel piatto quando si siedono a tavola e scopri che mangiano quasi esclusivamente dei pezzi informi di materia organica anfibia.

E non prendetemi come il solito italo-centrico convinto che la cucina italiana sia la più buona del mondo, perché il discorso si estende a tutto il bacino del mediterraneo. Grecia, Portogallo (che è Mediteranneo dentro), Turchia, Nord Africa e anche la Spagna... che ci prova pure a far vedere che civiltà può far rima con godersi i piaceri della vita, ma i risultati non sembrano arrivare visto che rischia di finire come la Grecia prima di noi. Fa eccezione solo la Francia. Forse perché non è un Paese esclusivamente mediterraneo o magari sarà l’acqua, ma, in effetti, la testa al re, in Europa, sono gli unici ad averla tagliata. Forse perché, sono diventati nazione prima di tanti o perché non hanno mai subito una dittatura una dittatura (come Spagna, Portogallo, Grecia e Italia) o semplicemente perché un’eccezione serve sempre.

Quindi rassegnatevi, per essere un paese civile non occorre altro che un tempo orrendo e un cibo infame (o essere francesi).

Voi fareste a cambio?

martedì 1 giugno 2010

Breaking News


Ultimamente (beh, nemmeno troppo) ci sono state un po’ di notizie che mi hanno colpito. 

Fresca fresca, c’è questa storia dei commando israeliani che vanno a sparare a quelli che portano aiuti umanitari ai Palestinesi. Se una cosa del genere l’avesse fatta uno stato canaglia, tipo la Corea del Nord l’avrebbero immediatamente (e condivisibilmente) nuclearizzata.
Israele, al solito, se la caverà al più sopportando per un po’ di tempo il dito di sdegno dell’occidente e qualche autobomba dall’oriente. Ma forse vogliono solo misurare l’ampiezza del loro raggio d’azione, visto che con Piombo Fuso pensavano di averla fatta grossa ma, alla fine, nessuno gliel’ha fatto pesare se non qualcuno senza voce in capitolo.

Poi ho letto di una pornostar arrestata per atti osceni. Se volete discutiamo pure del concetto di “atto osceno” ma alla fin fine una pornostella è una che campa facendo vedere la patata e insinuandosi oggetti tubiformi in materiali più o meno biocompatibili all’interno di uno o più orifizi. Insomma, diciamo che è proprio una prerogativa del suo lavoro, quella di compiere atti osceni. Un po’ come il Papa e Berlusconi sono obbligati dal loro ruolo ad abusare della credulità popolare. Anche questo è reato ma è meno divertente dell’atto osceno.
Il problema vero della pornostar è che in quel locale pare ci fossero minorenni che pare l’abbiano pure toccata (e vorrei ben vedere!), cosa ci facessero lì i due minorenni non è dato sapere. Sequestro di persona? 

Diverso tempo fa ho invece letto dell’espulsione di 9 pericolosi terroristi. Bene, bravi, bis. Cioè, pur fidandosi su questa manifesta pericolosità, ma siamo proprio sicuri che l’espulsione sia proprio la soluzione migliore?
Vi faccio un esempio. Torno a casa. Vado in salotto e ci trovo una belva feroce, tipo un orso, un gorilla, un diavolo della Tasmania o un tirannosauro che ha già rotto tutto il divano. Allora mi attacco al telefono. Chiamo l’accalappia animali feroci. Lui arriva. Lo cattura col suo super retino e poi lo lascia fuori dalla porta di casa. Libero. Io non mi sentirei sicuro.

Poi c’è la manovra economica del Governo del Fare che non ci avrebbe mai messo le mani nelle tasche ché questa era prerogativa dei comunisti sempre assetati di tasse e denari e nemici della libertà e della libera iniziativa e bla bla bla.

martedì 25 maggio 2010

la cacca di black


Sono piccolo, diciamo tipo 6 anni. Sono vestito con una tuta rossa di Snoopy e un giaccone da inverno impermeabile, marroncino fuori e con pelo marrone scuro dentro. Sono con i miei amici, durante l’intervallo post pranzo a scuola. Siamo nel cortile e giochiamo ai supereroi. Il complesso giuoco consiste nel correre qua e là indossando il cappotto solamente tramite il cappuccio, in modo che svolazzi all’indietro come un mantello. Non ricordo se l’abbinamento fra tuta rossa e mantello marrone mi turbasse, ma penso proprio di no.

All’improvviso vengo assalito da un attacco di Diarrea Thriller. Lo avrete senz’altro provato tutti, una volta nella vita, dolore, sudore freddo e la lucida consapevolezza che il tempo stringe inesorabile. Corro verso i bagno, sito all’interno del gigantesco edificio, arrivo alla porta ma vengo bloccato da un raggelante pensiero: non ho la carta igienica!

La carta, a quei tempi, era gelosamente custodita all’interno dell’armadio della classe. Figuro mentalmente il lungo tragitto fatto di scale e corridoio per raggiungere l’indispensabile oggetto, mi viene anche in mente che la chiave dell’armadietto e nelle mani dell’insegnate. Capisco di non avere tempo e in quel preciso momento succede ... sì, insomma, l’avete capito. Patatrac. Tragedia. Caporetto. Infamia.

In preda al panico mi calo i calzoni, cerco di ripulire in qualche modo le mutandine e, saggiamente, decido di usare il giaccone al posto della carta. Marrone su marrone, è questa l’illuminazione a guidare i miei gesti. Torno in cortile come se niente fosse, pronto alla fase due, ovvero la pulitura del giaccone (che, ovviamente, avevo nuovamente addosso).

Lo stendo per terra, nel terriccio e nella ghiaia. Mi ci siedo sopra e lo struscio in terra. Ma ecco l’imprevisto... si avvicina un amichetto:
“Hey, torna a giocare ai supereroi!”
“No, non mi va più”
“E a cosa giochi?”

E qui il colpo di genio:
“Gioco al pic-nic!”
“...”
“Siediti qui con me”
“No, no, io torno ai supereroi”

E se ne va di corsa.

Io proseguo. Fino all’avvicinarsi di un altro bambino. Si chiamava Tommaso, aveva la mia età ma non era in classe mia. Tommaso era noto per il numero impressionante di gigantesche cicatrici che gli solcavano l’addome. Ma ancora di più era noto per farsi la cacca addosso spesso e volentieri. Ovviamente per noi cicatrici e cacca non avevano alcun collegamento. Insomma, Tommaso era un bimbo un po’ sfigato e io me lo trovo davanti che mi chiede, anche lui, “che stai facendo?”. 

Riprovo con la storia del pic-nic, lui si siede vicino a me, e poi, con noncuranza, indica un pezzo di cacca attaccato al cappotto:
“Ma questa è cacca!”
“No, ma che dici!”
“Sissì, è cacca, io la riconosco!”
“Sei sicuro?”
“Si, alziamoci”
Ci alziamo e lui alza il mio cappotto.
“È pieno di cacca” dice e poi mi guarda in silenzio
“Correvo e sono caduto, forse sono caduto su una cacca!”
“Sicuramente era la cacca di Black!”

Tommaso mi serve l’assist definitivo! La cacca di Black! Black era il cane del custode. Black, per tutto l’asilo era stato il nostro ‘Uomo Nero’. L’asilo e la scuola elementare erano nello stesso stabile con il cortile condiviso. Io Black lo conoscevo bene, non ricordo che cane fosse, so sole che era enorme, nero, feroce e terrorizzante, una sorta di Cerbero. Nessuno di noi sapeva dove fosse, ma tutti lo avevamo visto e tutti sapevamo che si nutriva di bambini. La cacca di Black oltre a una scusa di ferro fungeva anche da subdola vendetta contro l’infernale quadrupede!

E allora Tommaso mi dice:
“Vieni con me, ti porto dalla bidella che ti aiuta a pulire, dobbiamo dirlo che c’è la cacca di Black, altrimenti altri bambini possono caderci dentro”. Ovviamente a quel punto i miei pensieri erano focalizzati su bambini immobilizzati nella cacca e poi sbranati nottetempo. Che subdolo animale, Black.

Tommaso però non mi porta dalla bidella, mi porta in infermeria, per mano, tranquillo tranquillo. Avvicinandoci sento la bidella pronunciare queste parole “non è possibile, era sporco da tutte le parte, c’era cacca fino a qui! Fino a qui dico!!” Siamo entrati mentre lei ripeteva “fino a qui” e lo ripeteva battendo con il taglio della mano lo stipite della porta. Ad almeno mezzo metro sopra la mia testa. Quest’ultimo dettaglio mi fece rimanere con la coscienza pulita. Nessuno avrebbe capito che ero stato io e poi c’era l’alibi della cacca di Black. Ma poi la sento dire “ma cos’è questa puzza?!” e si gira. Mi guarda. Mi guardo. Guardo Tommaso. Guardo me con la tuta di Snoopy smerdata ovunque. Riguardo Tommaso e lui, guardando la dottoressa:
“è caduto sulla cacca di Black”.

La dottoressa ha annuito e mandato via la bidella mentre questa ripeteva “Ma Black è morto due anni fa!”.

Nessuno ha avuto l’ardire di toccarmi e penso anche di rivolgermi la parola, finché non si è materializzata mia madre. Mi ha preso per mano e mi ha portato a casa. Cuore di mamma. Non ho più memoria di quel tragitto e arguisco non dev’essere stato memorabile. Ricordo però l’arrivo a casa. Mi porta in bagno. Mi mette nella vasca. E mi fa fare subito una doccia. Vestito. Con le scarpe. E la giacca.

venerdì 14 maggio 2010

ho ucciso un re


Rubo dal blog dei Wu Ming un pezzo dedicato a Bresci. Ottima lettura a tutti.

(...)Il principino mancato salmodiava: "Io credo nella mia cultura e nella mia religione, / per questo io non ho paura di esprimere la mia opinione. / Io sento battere più forte il cuore di un’Italia sola, / che oggi più serenamente si specchia in tutta la sua storia." Pura apologia della "smemoria condivisa": un'Italia tarallucci-e-vino unita nell'oblio di ogni sopruso passato e nella rimozione di ogni schifezza presente. E Ghinazzi ci metteva il carico da undici cantando: "Tu non potevi ritornare pur non avendo fatto niente..." Tra i conati di vomito, decidemmo di scrivere un ritratto di Bresci per la rubrica "Wumingwood" che teniamo su GQ.(...)
L’AMICO AMERICANO
Durante l’ultimo Festival di Sanremo sono circolati in Rete moltissimi video taroccati con l’esibizione canora del trio Di Savoia – Ghinazzi – Canonici. In una di queste perle il testo e la musica di Italia amore mio sono sostituiti da un’altra canzone, in modo che il sedicente principe di Piemonte sembra intonare le parole “Deh non ridere sabauda marmaglia, se il fucile ha domato i ribelli”, mentre Pupo gli risponde aulico e fiero: “Se i fratelli hanno ucciso i fratelli, sul tuo capo quel sangue cadrà”. Il montaggio si conclude in dissolvenza sul primo piano di un signore coi baffi impomatati, le punte appena girate all’insù, scuro di occhi e capelli, elegante nella sua giacca nera, camicia bianca e farfallino.
Una foto che nell’estate del 1900 costò il sequestro a un giornale di provincia, colpevole di averla pubblicata, mostrando così ai suoi lettori che Gaetano Bresci, l’assassino del re Umberto I, era un uomo di bell’aspetto e non una bestia.
All’epoca dei fatti, Gaetano aveva trent’anni, essendo nato vicino a Prato l’11 novembre 1869, lo stesso giorno di Vittorio Emanuele Ferdinando Maria Gennaro, futuro re d’Italia.
La sua famiglia s’era ridotta in miseria, come migliaia di altre, per via della crisi economica e delle tasse sui generi di prima necessità. Così Gaetano, a undici anni, comincia a lavorare quattordici ore al giorno, dal lunedì al sabato, e la domenica alle scuole comunali, per imparare a decorare la seta. A 23 anni finisce in galera per due settimane, con l’accusa di aver insultato una guardia. A 26 lo mandano al confino sull’isola di Lampedusa, per aver partecipato a scioperi e manifestazioni anarchiche. Tornato a casa, trova lavoro in Garfagnana, conosce una certa Maria e si ritrova con un figlio sulle ginocchia. Al che, decide di partire per gli Stati Uniti. In cerca di fortuna? Inguaiato dalla paternità? Stanco degli sbirri che lo sorvegliano? Non è dato saperlo. Fatto sta che paga una balia per il neonato e all’inizio del 1898 si trasferisce a Paterson, nel New Jersey, cuore di una fitta comunità di anarchici, soprattutto italiani. Gaetano frequenta i loro circoli, conosce il famoso Errico Malatesta, ma a differenza dei compatrioti si mette a studiare l’inglese, bazzica le osterie locali, gira con la macchina fotografica al collo, come un vero americano. Gli piace vestirsi bene e fa colpo su molto donne, finché non sposa un’operaia irlandese di nome Sophie. La loro luna di miele, però, è rovinata da una notizia terribile: almeno centoventi persone sono morte a Milano durante una grande protesta popolare contro il caro vita. Per riportare l’ordine in città, il generale Bava Beccaris ha fatto sparare sulla folla con i mortai. Un “grande servizio reso alle istituzioni e alla civiltà”, per il quale Umberto I lo ha decorato con la croce di Grand’Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia.
L’infame gesto del re ha due conseguenze immediate: da un lato, ispira un anonimo musicista a comporre la canzone sulla sabauda marmaglia e sul feroce monarchico Bava che gli affamati col piombo sfamò. Dall’altro, convince Gaetano Bresci ad acquistare una pistola Harrington & Richardson calibro 32 e a cominciare l’allenamento da tirannicida.
Prima di lui, altri due uomini hanno tentato di far fuori Umberto I: sono Giovanni Passannante e Pietro Acciarito. Entrambi ci hanno provato con un coltello e sono finiti all’ergastolo in un manicomio criminale. Forse per questo Gaetano preferisce affidarsi alle pallottole e alla mira. O forse sa che il re, da allora, indossa una robusta corazza in tutte le sue apparizioni pubbliche, come quella prevista per la fine di luglio a Monza, in occasione di un saggio di ginnastica.
Il 17 maggio 1900, quando si imbarca per Le Havre, Gaetano ha un ottimo stipendio, un cottage a West Hoboken, una figlia di un anno e una giovane moglie che non sa di essere di nuovo incinta.
Arriva a Monza passando per Parigi, Genova, Prato, Milano. Il 29 luglio indossa il suo vestito più bello e se ne va a spasso per la città, la macchina fotografica sempre al collo, come un turista americano. Mangia cinque gelati al Caffè del Vapore, forse per raffreddarsi il sangue, o perché sa che potrebbero essere gli ultimi della sua vita. Poi si mescola alla folla che accoglie l’arrivo del sovrano e alle 22 e 25 gli spara nel petto i tre colpi fatali.
La leggenda vuole che Gaetano Bresci cercò di allontanarsi come se niente fosse, per poi lasciarsi ammanettare da un carabiniere senza opporre resistenza. A una donna del popolo che gli gridava “Hai ucciso Umberto, hai ucciso Umberto”, rispose senza scomporsi: “Non ho ucciso Umberto. Ho ucciso un re”.
L’epilogo della storia è talmente scontato che potreste anche tirare a indovinarlo: un processo irregolare, la condanna all’ergastolo, il suicidio in cella e i medici, chiamati a constatare il decesso, che annotano sul referto “lo strano odore di putrefazione emanato dal cadavere, come se fosse morto da alcuni giorni”. Proprio qualche giorno prima, in effetti, era giunto al carcere di Santo Stefano l’ispettore di polizia Alessandro Doria, lo stesso che quattro anni prima aveva svolto le indagini su Pietro Acciarito, autore del fallito attentato contro Umberto I. Anche in quel frangente c’era stato un suicidio sospetto. Romeo Frezzi, arrestato per colpa di una foto di Acciarito trovata in casa sua, si era tolto la vita sbattendo la testa contro il muro, nel carcere romano di San Michele.
In quella foto, Acciarito mostrava tutti i tratti fisici dell’anarchico pazzo e delinquente, catalogati proprio in quegli anni da Cesare Lombroso. Il celebre criminologo, però, dovendo esprimersi sul gesto di Gaetano Bresci, dichiarò che i caratteri atavici e la follia non c’entravano nulla: “La causa impellente – scrisse – sta nelle gravissime condizioni politiche del nostro paese”. Secondo i fan club di Emanuele Filiberto e di Casa Savoia, quelle condizioni non sarebbero affatto migliorate grazie alla Repubblica. Un giudizio frettoloso, che non tiene conto di un dettaglio importante: cent’anni fa per sbarazzarsi di un despota bisognava sparare. Oggi, fino a prova contraria, sarebbe sufficiente non votarlo.

giovedì 13 maggio 2010

che fare?


Nei commenti a un precedente post mi si provoca garbatamente. Mi si chiede “Quanti immigrati dovremmo accogliere oltre ai 5 milioni circa che ci sono già,e di questi, una volta dentro, non dovremmo rimandarne a casa nessuno, nemmeno quelli che delinquono?”

Bene. La domanda parte dal mio commento sull’affermazione del Sindaco di Moratti per cui un clandestino senza un lavoro è naturalmente portato a delinquere. L’affermazione, per il sottoscritto è demenziale, perché chiunque, clandestino o no, pur di mangiare arriva facilmente a delinquere. Gli Italiani sono un passo avanti e delinquono e basta, ma questo non c’entra e poi è una battuta troppo facile e poi l’ha già fatta sicuramente meglio qualcun’altro.

Tornando alla domanda di cui sopra, io la risposta non ce l’ho. Per me i delinquenti devono stare in galera, chi è qui illegalmente e delinque venga pure rimandato a casa, ma definire delinquente di default il clandestino non mi sta bene. Non può starmi bene. Direi che non dovrebbe star bene a nessun individuo che si autoconsideri “civile”.

Vi risparmio la solfa del Paese è stato un crogiulo di gente diversa e l’ennessima ode agli italici primati positivi derivanti da questa bella mescolanza di genti e razze. Mi limito ad osservare che di stranieri ne arrivano e ne arriveranno anche in futuro, con buona pace di Calderoli e dei druidi Celti. Aggiungo che credere alla palla che questi vengano a rubarci femmine e lavoro è, come dire, ingenuo, esattamente come lo è credere alla storia che sia colpa loro se siamo un paese al collasso.

La mia soluzione? Non so se è una soluzione, ma penso che chi arriva abbia diritto a una possibilità di integrazione, vale a dire, almeno, ad imparare la lingua e un mestiere (curiosamente avviene in tanti di quei paesi che tendiamo, a torto o a ragione, a considerare civili). A quel punto le sue azioni decideranno per lui. Se sbaglia paga lui, se non sbaglia vinciamo tutti insieme. Un nuovo cittadino, un patrimonio genetico e culturale da dividersi, un lavoratore che paga le tasse e che farà dei figli che mi pagheranno la pensione.