Il notevole contributo della Lega per risolvere l’annoso problema dell’istruzione è non dare la cattedra a quei professori che non dimostreranno la conoscenze della lingua, della tradizione e della storia delle regioni dove si intende insegnare , perché, per Dio, serve un’autorità che attesti la tutela e la valorizzazione del territorio da parte dell'insegnante.
Vorrei che mi si spiegasse come l’operato di un docente può portare alla non valorizzazione del territorio in cui è costretto vivere. Siamo ancora all’idea che un professore nato a Napoli parlerà bene di Federico II e male di Cavour per il semplice fatto di essere terùn?
Io ho avuto una prof di lettere nata a Foggia e cresciuta a Napoli. Che faceva un po’ di confusione con le lettere... i miei Promessi Sposi erano popolati di personaggi epici come Tonnappontio, Ton Rotrico, Tonnoferrande e Tonnaprassete. Per non parlare dei laudabund, laudabundur e uttonècongiundivo in latino. Studiammo anche l’antifaida palestinese. Il problema è che, oltre a tutti gli strafalcioni lessicali, la poveretta era intimamente convinta che le piene del Nilo dipendessero dallo scioglimento dei ghiacci dell’Armenia.
In compenso avevo come prof di Storia e Filosofia una bella e raffinata donna, ex moglie di un noto cantautore impegnato, e dall’italiano che sarebbe stato ottimo se non avesse avuto il vezzo di pronunciare “e” ed “è” nello stesso modo, ovvero “é”. Ricordo una “l’éssére é in quanto éssére é il non-éssére non é in quanto non-éssére” che lasciò non solo il sottoscritto un po’ confuso. La fine esteta und campionessa di raffinatezzen sosteneva con forza che Garibaldi avesse partecipato attivamente alla rivoluzione Americana. Quella del 1775. E ne disse anche altre di notevole livello, che ora però non mi tornano a mente.
Il punto è che è gente così il problema (nella scuola), non il loro accento, non la loro provenienza (come se un Pugliese fosse contendo di dover andar a lavorare a Verona, fra l’altro...).
Siccome non voglio passare per uno che difende quella categoria che ho così disprezzato e a cui ho augurato piaghe da antico testamento durante gli anni di scuola, aggiungo che sono convinto che a chiunque non sia in grado di parlare (e scrivere) nella lingua comune delle penisola (il Piemontese risciacquato in Arno, chiamato comunemente Italiano) non debba essere permesso di laurearsi. Ovviamente non sto parlando di inflessioni o cadenze, ma dell’incapacità di trattenersi dal dire ‘ngoppa o di parlare come uno sciatore altoatesino “Ja! Io mòlto kontento ti afère vinto kvesto tvofeo pe’ mio paèse, Tio kva e Tio là!”.
I laureati, i dottori, dovrebbero essere il top dell’intelighenzia, il nostro migliore biglietto da visita da presentare ovunque, un vanto. Io ho fatto lezione a uno che s’era laureato (110 e lode) commentando con un “chischt’ e chischt’ se ne vann’affangulo...” una semplificazione in una funzione e che non parlava altro che il dialetto dei suoi padri (e dei padri dei padri dei padri....).
Un laureato a qualsiasi titolo, l’Italiano lo ha studiato per 5 anni alle elementari, 3 di medie, 5 di liceo, davvero non è possibile che non riesca ad emanciparsi dal suo dialetto. Dialetto che sono convinto sia un patrimonio da proteggere e valorizzare ma non ai danni della lingua comune a tutti coloro che si dicono Italiani.
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