Citazione

lunedì 25 luglio 2016

LA RAZIONALITA' DEL COCCODRILLO #10


Sugo al cinghiale
di motori e messaggi


Rincasando dopo quel concerto mi resi conto che era il momento di dare un’ulteriore sterzata alla mia vita. Era ora di cambiare e togliersi dalla testa un po’ di idee idiote. In fondo questa Marta era carina, sembrava simpatica, ci eravamo conosciuti in un modo curioso e a un concerto dei Car Bonx. Puro caso, tanto per cambiare. Ma perché non seguire la corrente? Perché per una volta non fidarsi del caso e dare fiducia a tutte quelle storie su karma e destino?

Mi svegliai con calma nonostante un sacco di cose da fare. Dio il sabato si è riposato, dicono. Ma lui non doveva fare la spesa, non doveva andare dall’elettricista, né a farsi fare un preventivo dal meccanico. Personalmente non mi piace riposare nemmeno la domenica, è il giorno prima del lunedì e vuoi sprecare l’ultimo giorno di libertà della settimana a dormire? Mi piacerebbe rispondere di no, purtroppo la realtà dei fatti dice il contrario: di solito lo spreco e passo dei lunedì ancora più di merda dei normali lunedì.

Andare dal meccanico è una faccenda che mi turba, di motori non capisco niente, di macchine men che meno. Quel tempio del machismo che è l’officina per me è solo un luogo sporco, puzzolente, ansiogeno, popolato da mangiatori di morchia che parlano linguaggi a me ignoti venerando donne nude appese alle pareti (quella è l'unica cosa che capisco, in realtà).

Come sempre, anche quella volta provai a interpretare la parte dello sciolto, per dar l’impressione di non essere lo sprovveduto che sono così da non farmi fottere. Arrivai preparatissimo, conscio di dove fosse e di come fosse fatto il libretto, di quale fosse il numero di targa, bollo in regola, patente a posto. Ovviamente bastò una domanda del meccanico per far crollare il mio castello di carte: “quando l’hai cambiate l’ultima volta?”. “Mai, da che ne ho memoria” risposi giusto per non fare scena muta. “alla revisione l’anno scorso m’avevate detto che era tutto preciso”, aggiunsi lì, come a dire “sono un cliente, non un turista da spremere ingiustamente”. Lui sparò una cifra, probabilmente a caso, e gli lasciai il veicolo. Felice che la faccenda si fosse risolta così velocemente.

Poi andai a fare la spesa, chiedendomi perché non ci fossi andato prima in macchina. E fu proprio durante una noiosissima fila ad una cassa che mi arrivò un messaggio sul telefono

la sett prox ci sono i Vatussi Rudi, ci vai?

Era Marta. Prima di rispondere analizzai la sintassi. Stringata, ma passabile. Sarebbe potuto andare peggio, tipo:
stt prx c sn vtssi c6?” cosa che mi avrebbe come minimo turbato. Di conseguenza tenni a bada il mio razzismo da messaggistica e scrissi

Li aspetto da 30 anni! Daje!

La risposta non tardò

Bellissimo. Ci vediamo lì

Cosa prevedeva a questo punto il codice da acchiappo telematico? Avrei dovuto controbattere? No? Sì? E la tattica cosa suggeriva? Avrei dovuto insistere? Cosa potevo rispondere?

Un laconico “ok”?

Buttarla sul finto spiritoso tipo “grazie per il bellissimo ma menti sapendo di mentire”?

Azzerbinarmi con un “non vedo l’ora, conto i giorni”?

Magari provare a tirarmela “sarebbe carino incontrarsi, ma forse ho altro da fare e se vengo sarò in comitiva…”?

Giocare a carte peggio che scoperte “Ti farei un pigiamino di saliva”?

Oppure provocare “Non fare che mi dai la sòla”?

Complice anche il mio turno alla cassa, decisi di farmi gli affari miei e non rispondere. Trascorsi un ragguardevole sabato sera davanti a un film trash e passai la domenica a pulire la mia stanza, il bagno e la cucina, attendendo il ritorno di mio fratello.

Nib arrivò in tempo per la cena. Era stato al paese, dagli zii, di conseguenza era carico di ogni ben di Dio. Ci preparammo la tavola, 3-4 etti di pasta conditi con un magnifico sugo al cinghiale fatto dalle amorevoli mani di zia Albina e mangiando gli raccontai le ultime novità. Tipo che ero stato dal meccanico, avevo litigato con delle vecchie al supermercato e che il film della sera precedente era davvero un insulto alle cose belle del mondo, di conseguenza avremmo dovuto rivedercelo insieme quanto prima.

Poi gli raccontai di Marta.

Capitolo 11

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lunedì 18 luglio 2016

LA RAZIONALITA' DEL COCCODRILLO #9


Scelte

di piscine e fughe

Non è vero, era anche colpa mia. Era soprattutto colpa mia.

Sono sempre stato selettivo con le persone, ancora di più con le donne. O tutto o niente. O la principessa dei boschi o un’esistenza da solitario eremita.

Nessun compromesso. E immaginate un po’, provate a indovinare quale possa essere il rapporto fra Principesse dei Boschi da una parte e anni di eremitaggio dall'altra. Dove penderà la bilancia?

Se proprio devo essere sincero, anche questa storia dell’essere selettivi è una scusa. Un bel dito dietro a cui nascondersi per negare la realtà: cacarella e senso d’inadeguatezza.

Di aneddoti imbarazzanti sulla questione potrei raccontarne per giorni, probabilmente. Per esempio, ricordo quando in piscina c’era una che mi faceva il filo. Ma io niente. Rigido e dritto per la mia strada come nemmeno un pistolero di Eastwood avrebbe mai fatto.

Sarà stata una latrina con l’alito mostruoso e simpatica come un cancro al colon, direte. Invece no. Era anche carina e sembrava pure simpatica. Quella poveretta era arrivata a farmi le poste dopo l’allenamento e l’unica reazione che ottenne fu di farmi ottimizzare ancora di più tutta la pratica di doccia-asciugatura-vestizione.

Ma lei niente, non demordeva, a costo di farsi trovare totalmente zuppa, mi aspettava sempre all'ingresso del centro sportivo. Al suo “Ciao…” colmo di speranza e aspettative, rispondevo un “ciao.” secco, corto, a voce bassa, senza ammissione di repliche, a testa bassa, tirandomi la borsa sulla spalla e procedendo dritto senza guardarla.

Bugia: in realtà la guardavo con la coda dell’occhio, sperando e temendo al tempo stesso facesse qualcosa di eclatante che mi obbligasse a darle attenzione. Ci speravo, ovvio, a chi non piacerebbe? Se avesse fatto lei il primo passo, non sarebbe stata colpa mia! Oggi non saprei dire di cose avessi paura, ma preferivo giocare sul sicuro.
Il problema è la definizione di “sicuro”. Per me, al tempo, se me la fossi trovata nuda e nel letto non quale dubbio di piacerle l’avrei ancora avuto. E poi avevo fifa, se le avessi rivolto l’attenzione a cui anelava, di lì a pochi minuti saremmo stati sposati e, diamine, magari la donna della mia vita, la vera principessa, era dietro l’angolo o, financo, già a casa ad aspettarmi impaziente! Non potevo perdere tempo!

E poi, a dirla tutta, provavo anche un piacere perverso in quel ruolo da sostenuto. Nemmeno fossi stato l’uomo del Mennen. Mi faceva sentire migliore di Nib che le femmine doveva procacciarsele (con successo, ma questo è un dettaglio), mentre a me si offrivano spontaneamente (e mi permettevo di scacciarle). E qui dramma e delirio iniziavano ad andare a braccetto. Pur di non sputarmi in faccia, mi imponevo obiettivi di diversi ordini di grandezza oltre la mia portata, interpretando il ruolo di un Dante invaghito di una Beatrice per cui struggersi da lontano e senza nemmeno una benché minima capacità poetica per essere ricordato  dalle generazioni future.

Insomma, il succo è che ho incarnato l’apoteosi della sfiga per un sacco di tempo, poi iniziai a svegliarmi pian piano solo una volta uscito di casa ma credo ormai di aver già divagato troppo.

Capitolo 10

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lunedì 11 luglio 2016

LA RAZIONALITA' DEL COCCODRILLO #8


Traslochi
di gusci e civilità

Il mio primo anno dopo la morte di mamma e papà fu strano.
Non ero mai vissuto fuori casa. Non ero mai vissuto circondato da coinquilini con cui non avevo nulla a che spartire. Intendiamoci, il momento in cui esci fuori da casa dei tuoi dev'essere un momento esaltante, il momento in cui prendi il toro per le corna e diventi finalmente padrone del tuo destino. Per me non fu così, non avevo scelto io di saltare giù dal nido, il nido mi era scivolato via dalle mani. Stavo male, ero affranto, ero incazzato, per cui abituarmi non fu semplice.

Nel corso di due anni cambiai sette case, vivevo praticamente da zingaro. Mi spostavo da un guscio all’altro come un paguro, accompagnato da scatoloni pieni di dischi, uno di libri, una scatola da scarpe con qualche cianfrusaglia e una valigia di vestiti.  Non avevo molta roba. Tante cose le avevo buttate nella pia illusione di indebolire legami con un passato prossimo doloroso, altre cose non mi servivano.

Preferivo muovermi leggero, poter fare i bagagli e caricare tutto in macchina nel minor tempo possibile, così da poter fuggire in caso di un nuovo colpo gobbo del destino.

Il primo guscio in cui mi rifugiai fu una stanza in casa di amici di alcuni parenti. Dopo tutto quello che era successo avevo la testa davvero altrove e ammetto di essermi comportato anche un po' da stronzo. Volevo stare da solo, per conto mio, isolato, non volevo parlare con nessuno, né fare vita sociale. I padroni di casa non erano dello stesso avviso. La seconda settimana di permanenza ero già trattato come “uno di casa”, il che vuol dire che benché non volessero soldi per l'affitto ero tenuto a rendermi utile, che non potevo restare rinchiuso in stanza, che dovevo mettere in ordine, che dovevo pulire e che se proprio volevo ascoltare quella musica di merda era il caso lo facessi quando non c'era nessuno e sei un pessimo esempio per i nostri figli. Durai un mese.

Il secondo lo trovai rispondendo ad un annuncio trovato ad un palo della luce vicino l'ospedale: Affittasi letto in stanza doppia. L'occupante dell'altro letto era un personaggio sgradevole seguace di dubbie teorie igieniche. Non puliva, dormiva vestito ma, quel che è peggio, si lavava il minimo indispensabile perché il sapone fa venire il cancro e fumava continuamente (poco importante se a letto, al bagno, in stanza) perché non è vero che fa male, seminando mozziconi qua e là. Durò 3 settimane. Poi me ne andai, non prima di avergli schiacciato delle uova sotto il materasso e cacato in una scarpa da ginnastica. Seppi diverso tempo dopo che non se ne accorse per mesi.

Il terzo fu una sistemazione di comodo e durò una sola settimana, sistemato su un divano in casa di Angela, una collega. Angela di nome e di fatto e spero che la sua divinità amica la protegga sempre. Questa settimana mi rimise un po' in pace col mondo e con il genere umano. Angela, Giandomenico (il marito) e Stefano (il figlio) mi trattarono da essere umano. Non da povera vittima della sfortuna, non da orfanello, non da ospite e nemmeno da soprammobile. Non mi misero fretta, paletti o altro. Fu poi Stefano, il figlio di Angela, a procurarmi i contatti per il quarto guscio.

Era un appartamento di studenti, amici di Stefano, che avevano una stanza singola da piazzare. Mi ci trovai bene, erano ragazzi tranquilli, un po’ nerd, ma non a livelli preoccupanti ed erano piuttosto felici del fatto che non fossi un pazzo allucinato come il precedente inquilino. Avevo finalmente uno spazio mio e solo mio, potevo stare da solo quando ne avevo bisogno e mi bastava aprire la porta per avere compagnia. Purtroppo, entro i successivi 4 mesi, più della metà dei ragazzi si era laureata ed aveva abbandonato l’appartamento, sostituita da diciottenni che ancora odoravano di gessetti e brufoli e decisi che era il momento di cambiare nuovamente aria. Ormai mi veniva davvero facile, in fondo.

Il quinto ero un appartamento di studentesse. Ci arrivai tramite Gaetano, uno degli occupanti del guscio precedente. Gaetano stava con una certa Simonetta, Simonetta abitava in un appartamento con altre ragazze descritte come estremamente selettive. In questo appartamento c'era una stanza doppia libera. Alessio e Simonetta convinsero le altre ragazze che ospitare due maschi nella doppia sarebbe stato un grande affare. A conti fatti fu più Simonetta a convincerle. Dopo un po’ di tempo però, la doppia divenne appannaggio di Gaetano e Simonetta e io mi trasferii nella stanza singola.
Grazie a Gaetano, Simonetta, Maria Assunta, Rosaria, Viviana, Mery ma soprattutto Michela riuscii a rimettermi definitivamente in sesto, tornando di fatto e completamente alla civiltà. Condividere un appartamento con 5 pulzelle ebbe ricadute positive di vario tipo, una di queste fu proprio Michela.

Cominciò tutto quando un giorno, a pranzo, quando mi portò a sorpresa nella terrazza condominiale. “Ti va una sorpresa?” mi chiese. Risposi affermativamente. Mi prese per mano e mi portò per le scale, salimmo fino alla porta della terrazza, lei aveva la chiave. Aprì la porta. C’era un tavolino apparecchiato per due. La guardai interrogativamente. Lei sorrise e disse solo “Auguri!”. Mangiammo, bevemmo ma soprattutto parlammo. Davanti a lei e davanti ad un bellissimo panorama, per la prima volta da tanto tempo, riuscii a sfogarmi tirando fuori un sacco di cose. Le ore passarono in fretta, ci godemmo anche il tramonto.

“Lo sai che ieri mi hai fatto piangere?”
Caddi dalle nuvole
“Io? No… Che ho fatto?”
“Mi hai evitata… questo… volevo farlo ieri a cena…”
“Ah. Ecco… scusa… non avevo capito…”
“Aspetta… come mi hai risposto… ah sì ‘tranquilla, come se avessi accettato ma devo finire una cosa…’ e stavi cazzeggiando al computer”
“Eh, sì, sono un fenomeno”
“Stronzo. Sono andata a piangere da Viviana…”
“Il punto è che molto molto molto raramente mi capita di essere ricambiato da quelle che mi piacciono”
“Eh?”
“È così, se vuoi ti faccio un elenco… ma l’abitudine è tale che ormai non capisco nemmeno più quando succede qualcosa di bello…”
“E io che pensavo fossi così pieno di donne che non mi vedessi nemmeno…”
L’abbracciai. Fu un bel momento. Uno di quelli che in un modo o nell’altro ti porti dentro a vita.
“Mio fratello non ci crederà mai…” dissi sorridendo
“non crederà a cosa?”
“A me con te”
“Guarda che mica stiamo insieme!”

Ci rimasi come uno stronzo congelato sul ciglio di un marciapiede in una fredda notte siberiana. Il sole era tramontato, alzai lo sguardo guardando le stelle. Pensando che, ancora una volta, non avevo capito nulla. Ero un po’ confuso ma nemmeno troppo stupito della piega che avevano preso le cose.

Poi mi baciò.
“Ora stiamo insieme”.

Purtroppo, 9 mesi dopo, la proprietaria dell'appartamento pensò bene di passare a miglior vita e gli eredi ci comandarono di sloggiare.

Il sesto fu l'appartamento con i due maledettissimi sfigati di cui ho già parlato. Non so perché, ma io e Michela non ci trasferimmo nello stesso appartamento. Lei seguì Maria Assunta, Viviana e Rosaria, Gaetano e Simonetta andarono per conto loro. Per me cambiare casa era ormai un’attività di routine e mi accomodai nel primo posto che trovai. Con Michela durò ancora un po’, dopo che ebbe finito gli studi iniziò a trasformarsi, pian piano in una persona che non mi piaceva più. Divenne piena di sé, con idee strampalate sul futuro, convinta com’era che il mondo fosse la sua ostrica e che la perla attendesse lei e solo lei. Ci lasciammo dopo una litigata feroce dove entrambi dicemmo cose molto poco piacevoli.

Adesso ero al settimo appartamento, ancora un nuovo inizio, questa volta assieme a mio fratello. La vita di entrambi era decisamente migliorata. Cambiato casa, cambiato aria, abbandonati coinquilini molesti, cambiato quartiere. Mi sentivo davvero padrone del mio destino.

Nib aveva pure scaricato Viola, dettaglio da non sottovalutare, io, dopo Michela, ero rimasto solo. Non per forza per colpa mia.

Capitolo 9

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lunedì 4 luglio 2016

LA RAZIONALITA' DEL COCCODRILLO #7


Lavoro manuale
di affitti e traslochi

Nib abitava nell’appartamento di Viola e coerenza volle che, lasciando lei, lasciasse anche casa. Da parte mia ero da un pezzo in rotta con i miei di coinquilini.

Erano due sfigatissimi studenti fuori sede e fuori corso mantenuti da papà. Erano immediatamente caduti nelle viziose spire della grande città e avevano iniziato ad atteggiarsi ad artistoidi intellettuali. Casa era sempre piena di gente inutile, spesso fatta e dedita o a far casino fino all’alba o a parlare dei massimi sistemi o a vomitare in giro. Tengo a precisare che, normalmente, non ho niente contro chi fa casino fino all’alba, con chi si diverte e via dicendo. Mi davano semplicemente fastidio loro e tutte le manifestazioni della loro esistenza.

Ulteriore aggravante, avessero mai e dico MAI portato un pezzo di soppressata, di ‘nduja, un peperoncino, un'oliva ripiena o un qualche altro dono della loro terra. Niente. Tanto che per un periodo pensai che si tenessero tutto nascosto sotto il materasso o fra i vestiti pur di non condividere prelibatezze con il sottoscritto. A domanda diretta mi risposero che a loro quella roba non piaceva e che non si confaceva e persone della loro levatura. Lo giuro su quello che ho di più caro al mondo, usarono davvero i termini “conface” e “levatura” e questo penso sia sufficiente a chiudere la questione senza che si pensi che fossi io la persona cattiva.

Molto probabilmente è a causa di quei due coglioni e dei loro compari se ho sviluppato un certo fastidio verso la categoria dello “studente fuori sede”.

Ospitai Nib per un paio di settimane, dopodiché si colse la palla al balzo per cambiare aria. Ce ne andammo una mattina all’alba, i due fessi dormivano, la macchina l’avevamo caricata subdolamente e pian pianino nelle notti precedenti. Lasciai un biglietto grande e in bella vista attaccato sulla porta di casa con scritto “La vostra levatura mi opprime. Non posso più vivere nella vostra ombra. Mi sento misero. Addio. Niente fiori, ma opere di bene”.
È così che io e Nib finimmo per dividere lo stesso appartamento. Si trattava di una casetta di un centinaio di metri quadri al pianoterra di un palazzone gigante in una zona di tutto rispetto. Lo avevamo trovato, guarda un po’ tu, per caso.

Accadeva infatti in tempi non sospetti che una collega mi chiedesse se per caso conoscessi qualcuno interessato ad affittare un appartamento di un suo amico. Al tempo, proposi ai due imbecilli di cambiare casa, lasciare la topaia in cui stavamo per sistemarci più comodi. Rifiutarono categoricamente, adducendo motivazioni demenziali che non sto qui a riportare per evitarmi un'ulcera.

Trovandomi a dividere la stanza della topaia con Nib, mi rivenne in mente quella storia. Ne parlai quindi con la collega che chiese all’amico. Fortunatamente il tipo era appena riuscito a cacciare a calci nel culo una funesta ciurma di studenti fuori sede (sarà un caso?) che pagava saltuariamente ed aveva fatto un sacco di danni. Ci offrimmo quindi di occuparci noi della risistemazione dell’immobile (cose come rattoppare i muri, ridare la vernice a tutta casa, sostituire qualche mobile e via così) in cambio di uno sconto sull’affitto. Accettò, accogliendoci quasi come angeli salvifici.

Così, dedicammo qualche week end e qualche giornata di ferie a sistemare casa. Per quanto mi riguarda, lavori di questo tipo riconciliano con la vita. Puoi dare una misura al tuo sudore e soprattutto provare una soddisfazione direttamente proporzionale alla fatica che hai fatto. E poi il risultato, buono o brutto che sia è tutto esclusivamente riconducibile a te stesso, alle tue capacità e al tuo sforzo. Se viene uno schifo, almeno non hai pagato nessuno, se viene bello è tutto merito tuo. Insomma, il lavoro manuale può nobilitare l’uomo.

Nelle giuste dosi. Poco all’anno.

Capitolo 8

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lunedì 27 giugno 2016

LA RAZIONALITA' DEL COCCODRILLO #6

Radio
di quaquaraqua e stronzi


Ci ritrovammo un paio di anni dopo, in una pizzeria, a causa di uno stronzo.

Era novembre, lo ricordo con chiarezza, mi squillò il telefono, era Nib che mi chiese “ti interesserebbe collaborare con una radio?”. Lavoravo poco in quel periodo, momento sbagliato, clienti sbagliati. Chiuso a chiave in un ufficio e con molto tempo libero, quindi l’idea non mi parve affatto male.

Per una serie di eventi tendenzialmente imprevedibili, Nib era entrato in contatto con un certo Quinto Numerelli, sedicente guru del mondo musicale nonché creatore, mente e capo di una nuovissima emittente radiofonica locale, già parzialmente lanciata sul mercato e pronta al botto definitivo, dal nome di Station To Station. Il logo era una specie di locomotiva che in qualche modo doveva richiamare alla mente Crazy Train ma che in realtà faceva pensare a una versione svantaggiata del trenino Thomas.

Quinto aveva bisogno di DJ che sapessero il fatto loro in termini di rock di varie durezze, che preparassero scalette per le varie trasmissioni, facessero interviste, si occupassero un po’ dei testi e quant’altro. Nib era stato assoldato immediatamente e fece il mio nome come altro eventuale collaboratore.

Quinto fu molto soddisfatto del materiale che gli proposi a mo’ di prova d’ingresso e organizzò una pizza d’investitura (non badava a spese, lui) per far incontrare tutta la redazione. Che si scoprì essere composta da tre persone, tutte già nominate in questo capitolo.

Quinto ci promise carta bianca, ci fece produrre un bel po’ di materiale, fra monografie, critiche, scalette tematiche, eccetera. La radio nel frattempo non si concretizzava, Quinto, ad ogni domanda diretta, rispondeva sempre: “Ci siamo, il mese prossimo iniziamo le trasmissioni, tenetevi pronti e se avete preparato qualcos’altro mandatemelo, che così aumentiamo i finanziamenti!”. Questo accadeva in un febbraio. Dal settembre successivo Quinto sparì.

Non tutto il male viene per nuocere. Infatti grazie a quell'anno speso dietro a Quinto, il rapporto fra me e Nib, elaborato ormai il lutto, divenne finalmente solido. In fondo eravamo cresciuti insieme, conoscevamo i reciproci interessi e sapevamo di avere troppo in comune perché le cose potessero andare diversamente. In più c’era il crescente livore verso Quinto a far da collante.

Nib, al tempo, stava con una rompipalle da competizione, matta come un cavallo e con manie di persecuzione. Arrivò a chiamarmi perché voleva sapere il nome delle “troie” (testuale) con cui usciva lui quando diceva che si vedeva con me. Fatto curioso, quando mi fece questa telefonata, ero in macchina proprio con Nib e non stavamo andando a troie bensì, tanto per cambiare, a comprare dischi.
Le dissi innanzitutto che il maschile di “troia”, per il vocabolario, è “porco”, in secondo luogo che non ero interessato all'articolo e che quindi, anche alla luce dell'insulto gratuito e della telefonata affatto gradita, se c’era una troia fastidiosa era lei. Poi passai il telefono ad un allibito Nib.

Lei non aveva senso dell’umorismo. Le stronze pazze rompipalle non hanno mai senso dell’umorismo, se siete interessati a+ una lezione di vita. Litigarono per un bel po’. Nel frattempo eravamo arrivati al negozio e io scesi dalla macchina che ancora discutevano.

Comprare dischi era un rito che andava consumato con modalità e tempistiche precise. Decisi quindi di lasciar litigare Nib in pace, e mi dedicati alla nobile arte di spulciare fra le copertine polverose. Quando uscii, con una bella sporta carica di dischi, loro erano ancora lì a parlare. Aprii la porta della macchina dal lato del passeggero. Strappai il telefono, che poi era il mio, dalle mani di Nib, lo misi all’orecchio in tempo per sentire “tu quella merda di tuo fratello devi smettere di vederla!”

“Viola, scusa, sono la merda… a questo punto avresti rotto le palle e mi serve il telefono.”
“Vaffanculo”
“Se ho tempo, faccio un tentativo, principessa. Ora ciao.”
Click.

Nib non entrò nel negozio di dischi e non accettò nemmeno di dividere il mio malloppo. La storia con Viola proseguì ancora per un dannatissimo lungo strascico, poi la piantò. Ma lei impiegò decisamente un po' troppo tempo a capire che “non voglio più avere niente a che fare con te” voleva dire proprio “non voglio più avere niente a che fare con te”. Poi ebbe la decenza di scomparire.

Viola gli aveva messo le mani addosso nella parte finale della faccenda dei nostri genitori, quando Nib aveva ormai le difese più che abbassate ed era diventato preda facilissima per ogni sorta di sanguisuga. La fine della storia con la pazza fece ringiovanire mio fratello di circa 10 anni e, a dire il vero, fu una mano santa per entrambi. 

Capitolo 7

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lunedì 20 giugno 2016

LA RAZIONALITA' DEL COCCODRILLO #5

Grande
di tragedie, scoperte e separazioni


E pensare che nemmeno dovevo esserci io a quel concerto, ero rimasto in dubbio fino in fondo, mi aveva convinto Nib obbligandomi a vincere una certa indolenza che da un po' stava diventando una vera filosofia di vita.

Nib, che se non ci fosse stato lui chissà che sarebbe stato di me oggi, e probabilmente viceversa. Eravamo una famiglia come tante, noi. Lui il maggiore, quello figo, brillante, vincente, io quello fallace sempre all’inseguimento, in salita, senza scarpe e con i cocci per terra.

Non vorrei buttarla sul patetico parlando di infanzia difficile ma mettetevi nei miei panni! Agli occhi dei nostri genitori, i miei successi non erano che un pallido riflesso dei suoi, persino i suoi sbagli erano qualcosa di epico e drammatico, mentre i miei non arrivavano nemmeno a suscitare sdegno, e io ce la mettevo tutta con i fallimenti, non crediate!

Agli occhi dei nostri amici, perché in fondo con un anno di differenza di età, gli amici erano praticamente tutti in comune, lui era il leader, io l’ultimo della fila. Il maschio alfa lui e il maschio omega io.

Poi, per fortuna, arrivò l’adolescenza. E immaginate un po’? Le nostre amiche era con me che volevano parlare. Era me che cercavano al telefono. Era con me che si confidavano. Ma poi era nelle sue mutande che finivano per mettere le mani. Per capire il perché di questo fenomeno iniziai a fare domande dirette, ricevendo sempre come risposta una variazione sul tema del “tu sei issimo qui, errimo lì, ma ti vedo solo come un amico e lui poi è più grande”.

E io lo odiai per essere “più grande”. Nel frattempo eravamo diventati uomini, almeno per la legge, entrambi all’università, con la differenza che lui macinava esami e voti notevoli, io cazzeggiavo tirando a campare. M’ero iscritto solo per dimostrare che essere “più grande” non significava niente e che giocandocela alla pari, in campi da gioco finalmente diversi, avrei ben dimostrato il mio valore.

Ovviamente fu una pia illusione. Scoprii che frustrazione e voglia di rivalsa non sono né un buon carburante né uno stimolo particolarmente efficace: lui si laureò, magna cum laude, io abbandonai gli studi.

Poi mamma e papà si ammalarono. Quello ci fece diventare uomini non solo esclusivamente davanti alla legge. 

Vedere una persona che ti avvizzisce davanti, come se ogni giorno invecchiasse di 6 mesi è qualcosa che ti scava un buco dentro. Buco che nel mio caso, nel tempo, si è riempito di cinismo e di incapacità a prendere qualcosa sul serio, soprattutto le cose serie.

Fu il periodo peggiore di tutta la mia vita. Beh, fu il peggiore di quella di tutti i soggetti coinvolti ed eviterò dettagli per rispetto verso i nostri genitori, verso noi stessi e verso chiunque abbia vissuto un dramma di quest’entità.

Durante questa battaglia, imparammo a conoscerci, scoprendo di non aver mai davvero capito chi avevamo davanti. Lui scoprì che per tanti anni ero stato esclusivamente una merdina rancorosa, invidiosa e insoddisfatta, io che per lui ero una sorta di monumento all’integrità, uno che cercava di forgiare il mondo a propria immagine rifiutandosi di farsi deformare come aveva fatto lui, facendo sempre quello che gli altri si aspettavano facesse.

Restò sorpreso di sapere che per me lui era stato per anni una sorta di dio dorato messo lì per indicare ai vermi (io, me stesso e me medesimo) quale fosse la via da seguire.

Scoprimmo anche tante cose di noi stessi. Per esempio mi resi conto che, per me, combattere una battaglia persa in partenza non era un problema. Tutti i fallimenti e gli errori fatti fin lì mi tornavano utili. E la mia piccola rivalsa fu rendermi conto di essere estremamente più resistente e coriaceo di Nib. Lo so, così suona male, so bene che non era una gara, ma, credetemi, il giorno in cui riuscirete a guardare negli occhi il vostro idolo e non dal basso verso l'alto sarà un gran bel giorno.

Quando tutto finì, ci ritrovammo comunque svuotati. Con la vita personale ridotta all’osso e una vita lavorativa da dover costruire in qualche modo. Vendemmo la casa, perché non avevamo più coraggio di vivere lì dov’eravamo cresciuti, con tutto il peso dei ricordi e ognuno prese la sua strada e ci separammo, pur mantenendo qualche sporadico contatto.

Capitolo 6

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lunedì 13 giugno 2016

LA RAZIONALITA' DEL COCCODRILLO #4

Parallelepipedo
di esagitate e buone azioni

Caterina l’avevo conosciuta per sbaglio. Una di quelle coincidenze che di solito succedono nei film o nei pessimi libri degli esordienti...

Ero a un concerto dei miei amatissimi Car Bonx, mi stavo sorbendo l'anonimo gruppo spalla con l’unico intento di avvicinarmi al palco per mantenere la posizione. Niente di eroico, il pubblico, causa concomitante finale di non so che torneo di pallone, era scarso.

C’era una tipa davanti a me che saltava. Contenta. Io ero pure un po’ infastidito, sapete elencare 3 cose più fastidiose della gioia altrui mentre ti rompi le scatole? No. Esattamente. E quindi un po’ guardavo quei disperati sul palco che, era da ammetterlo, ce la mettevano tutta per scaldare il pubblico, un po’ guardavo questa che saltava, augurandole cose carine, tipo una storta.

Ad un certo punto, a questo forsennata volò via qualcosa dalla borsa. Guardai pigramente in terra, giusto per curiosità, per cercare distrazione, col piglio e il sentimento del Dr. Spock quando guarda calamità e commenta “affascinante” alzando il sopracciglio vulcaniano.

L’oggetto caduto era una sorta di parallelepipedo sformato. Sembrava pelosetto e, dal modo in cui era caduto, si intuiva pesante. Guardai lei, che saltava, e guardai quel coso, immobile a terra. Mi guardai attorno per capire se altri si fossero resi conto dell’accaduto. Niente. Aspettai che qualcuno, con un po’ più di vitalità in corpo, si chinasse a raccoglierlo. Nessuno si mosse.

Raccolsi l’affare pelosetto. Era un portafoglio. Uno di quelli da donna che dentro sembra ci tengano i mattoni, in pelle scamosciata, non particolarmente bello ed evidentemente strausato. Soppesandolo bussai sulla spalla della salterina dicendo nel frattempo: “Oh! T’è caduto questo…”

Dicendolo, m’immaginai già il suo sguardo carico di disapprovazione che mi accusava di averglielo rubato e mi vedevo portato via da poliziotti giganteschi che prima di arrestarmi mi malmenavano. Non feci in tempo a preoccuparmi, lei prese il portafoglio di corsa, guardandomi di sfuggita attraverso le ciocche bionde che le cadevano sugli occhi, farfugliò qualcosa che interpretai come un “grazie”, armeggiò con la borsa e riprese a saltellare.

“Per fortuna è andata liscia” mi dissi “Non ho dovuto fare la fatica di articolare parole o accendere il cervello. Ora posso riprendere ad annoiarmi in santa pace e attendere”.

Poco dopo la musica s’interruppe, i trogloditi sul palco salutarono e se ne andarono via. La tipa si girò attaccando bottone. Cercai vie di fuga onorevoli, tipo scorgere Nib che affondava nelle sabbie mobili o bimbi imprigionati in un incendio da dover salvare. Niente.

“Dai, ti offro una birra!” Disse. “Ma no, grazie” Risposi d’istinto. “Ma mi hai salvato praticamente la vita, dai, una birra sola, devo sdebitarmi!”. Cedetti, accorgendomi in quel momento che il sorriso della tipa mi piaceva. E mi feci offrire una birra. Si chiamava Marta, chiacchierammo un po’, ci divertimmo durante il concerto vero e proprio, ci scambiammo i numeri di telefono e poi tutti a casa a praticare l'antichissimo gioco dell’uva.

Capitolo 5

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lunedì 6 giugno 2016

LA RAZIONALITA' DEL COCCODRILLO #3

Gol!
di caso e palloni


La vita reale spesso è fin troppo verosimile.

Nei film, nei romanzi o a teatro è tutto più semplice. Tutto accade per una ragione, ogni elemento ha il suo scopo nell'economia artificiale della vita dei protagonisti. Nella vita questo non accade, anche se ci piace illuderci di essere noi stessi i protagonisti.

La vita è una correlazione di azioni e reazioni che si inseguono lungo un’infinita spirale con percorsi talmente caotici da non sembrare nemmeno frutto del caso da tanto sono incasinati. Perché il caso, quello vero, ogni tanto un po' d'ordine ce lo mette: metti un milione di scimmie in una stanza a pigiare le mani su altrettante macchine da scrivere e, prima o poi, una strofa dei Beatles salterebbe fuori… ma quando mai succede nella vita vera?

Guardando la vita che abbiamo alle spalle, l'impressione è che niente torni. Ma poi ci mettiamo d'impegno e inventiamo noi le relazioni fra i vari eventi così da giustificarli, ordinarli, sentirsi migliori, come se la nostra storia fosse una sorta di gioco del 15 con uno scopo finale che se non raggiungi è un’onta. E via allora a tutti quei discorsi assurdi tipo “se non si fosse rotto l’asse dello sterzo, non sarei mai andato a sbattere all’albero e quindi non sarei mai finito in ospedale con fratture multiple a braccia e gamba e non avrei mai conosciuto la fisioterapista che poi sarebbe diventata mia moglie”.

Autoillusione, costruiamo schemi senza alcuna controprova. Non sappiamo cosa sarebbe potuto accadere se le cose fossero andate diversamente. Se la macchina l’avessi portata dal meccanico prima che si sfasciasse lo sterzo? Non mi sarei rotto le braccia, non avrei incontrato la fisioterapista, ma magari la cugina del meccanico. Non so perché lo facciamo, forse perché pensare che siamo solo polvere in balia di un vento impazzito ci sembra inaccettabile.

È più confortante credere al grande disegno che accettare di contare talmente poco che nessun essere divino serio, benché annoiato e solo, si scomoderebbe a romperci i coglioni.

Però poi rifletto sui conti che non tornano mai, dico quelli della vita. E mi chiedo se invece non ci sia qualcuno o qualcosa che analizza tutte le variabili esistenti per poi far andare le cose per quell'unico verso che non avevamo e non avremmo mai considerato, nel bene o nel male.

Il caso. Perché chiamarlo fato o destino sarebbe considerarlo qualcosa di migliore di ciò che è in realtà. Il puro caso che scombina le nostre vite aprendo o chiudendo porte e nascondendoci le chiavi... e lo fa in modo totalmente casuale! E succede in ogni dannato campo. Per esempio, in una partita di pallone, il gol può arrivare perché uno si è allacciato lo scarpino male o magari è scivolato sull'unica zolla sollevata e un altro s’è trovato lì, con la palla improvvisamente fra i piedi e la passa, ma la passa sbagliata e invece di darla al compagno la insacca in rete. Un episodio. Puro culo.

È un caso se ha segnato? Certo! Difficile pensare che ci sia volontà. E la vita è così: fatta di episodi elevati ad episodi. Non si tratta più di tirare palloni che ogni volta possono entrare o no in porta a prescindere dal tuo impegno. Qui ci sono i palloni che tiri tu e i palloni che ti tirano i 7 miliardi di individui sul pianeta. Tutti nello stesso campo. Tutti contro tutti. Portieri volanti. Porte fatte come capita ammucchiando zaini e giacconi e che Dio ce la mandi buona!

E quindi puoi impegnarti quanto ti pare, ma una sera arrivi stanco in un pub fatiscente e magari sei pure un po’ incazzato per un sacco di motivi diversi e ci arrivi con qualche bicchiere d’anticipo. Poi ti lasci andare all'incazzatura, bevi ancora troppo e ti ritrovi in balia di un idiota che detesti per tanti motivi e della sua camicia di colore disgustoso. Proprio quel colore che proprio quel giorno ti infastidisce più del normale. A quel punto basta un commento di troppo. Fai la cosa sbagliata al momento sbagliato. La palla entra nella tua porta. Autogol! L'arbitro fischia la fine della partita. Hai perso, inetto coglione!

Alla fine, forse, hanno ragione quelli che vedono la vita come un percorso circolare e che quindi il caso non è casuale manco per niente e Dio, oltre ad essere davvero spiritoso, non gioca a dadi (o li usa truccatissimi), perché, insomma, se Caterina l’avevo incontrata, era stato per un puro caso.

Caso scaccia caso. Forse.

Capitolo quattro

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lunedì 30 maggio 2016

LA RAZIONALITA' DEL COCCODRILLO #2

Yogurt
di risvegli e abbrutimenti


Il risveglio del dopo sbronza lo conosciamo tutti. Come se non bastasse, avevo dormito semi vestito e con la finestra aperta. I maschi non badano a queste sottigliezze, almeno non quando ti riportano a casa sfatto. Non ti mettono il pigiamino, non ti augurano la buona notte e non ti rimboccano le coperte. Mi sentivo davvero sfasciato e con un drammatico sapore di bradipo in bocca.

Il sole fuori dalla finestra era già alto; trascinatomi fuori dalla stanza mi trovai davanti Nib, in mutande e pantofole di spugna bianche, che stirava ascoltando, credo, i Bastones. Mi chiese come andasse, la mia risposta non fu dissimile da un basso rantolo, tipo “mmmmmmmmrrrrrh”.

Sul tavolo della cucina 7 bottiglie di birra e gli avanzi di una pasta col tonno. Guardai Nib con gli occhi di un cane abbandonato in autostrada.

“Ma non ti ricordi niente?”
“M”
“Quando siamo tornati a casa abbiamo bevuto, chiacchierato, poi hai detto che avevi fame...”
“M?”
“Sì, tu”
“M.”
L’ultima “M” la dissi inarcando le sopracciglia. Ora era chiaro perché in bocca mi sentivo quel sapore di scolo di grondaia.

Mi attaccai al rubinetto dell’acqua e solo dopo aver messo in crisi le scorte idriche della provincia, grattandomi una natica, gli dissi di non ricordare nulla e di sentirmi come se mi avessero picchiato di brutto con bastoni nodosi e mazze chiodate.

Mi rispose che in realtà, ero io ad aver picchiato qualcuno, che ormai ero diventato un ometto e che si era già vantato con tutti i conoscenti comuni della cosa.

Non mi curai troppo del suo racconto, che ascoltai distrattamente. Ero ancora ben ottuso e soprattutto distratto da uno yogurt ai mirtilli, non scaduto, trovato in frigo. Mangiai in silenzio, mentre Nib riprendeva a stirare e ad ascoltare un genio sguaiato che dallo stereo urlava “Hey ho, lets go!”. Dopodiché, mentre lui interpretava il ruolo della brava massaia andando a fare la spesa e sbrigando alcune commissioni, mi calai nei panni dello zombie casalingo, ciondolando fra camera, bagno e cucina senza meta, scopo, utilità o decenza.

Ci ritrovammo verso sera, io irrancidito sul divano a mangiare wurstel crudi e senape guardando un film brutto, lui tutto giulivo per il suo sabato denso di attività utili. Sullo schermo, un nerboruto ex poliziotto in canottiera, esperto di botte e con la pistola a proiettili infiniti d’ordinanza, stava sgominando una gang di milioni di messicani a furia di calci nel culo, abbattendo un intero quartiere e dopo aver fatto esplodere macchine ed elicotteri.

“Com’è?”
“Buono”
“No, dico il film”
“Ah, ti dirò... probabilmente il fatto che mi senta ancora uno straccio mi ha impedito di cogliere l’approfondimento psicologico dei personaggi privandomi del godimento pieno”
“Sì, sembra proprio un film sottile”
“Puoi dirlo forte, guarda l’intensità dello sguardo di quel povero messicano a cui è appena stata amputata la mano, c’è un mondo lì dentro... ma non sono proprio nello stato migliore per approfondire”
“Non c’è niente da dire, sei il solito fine esteta... beh, io esco con la truppa dell'università, hai programmi per questa sera?”
“Certamente! Ho una lunga marcia a tappe forzate verso l'abbrutimento più profondo. Domani sarà un giorno migliore!”.

Purtroppo, una volta nuovamente in solitudine, anche la faccenda dell'abbrutimento mi divenne stretta. Andai a dormire, concludendo una giornata inutile.

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lunedì 23 maggio 2016

LA RAZIONALITA' DEL COCCODRILLO #1


Jimi vs Vasco
di risse e foto di dubbio gusto


Accadde precisamente lì, in quel posto, in quel buco di cesso che chiamavano “Il Locale”. Uno di quei nomi che può partorire solo un ritardato con troppa autostima. Insomma, io ero lì, l’Idiota era riverso su un tavolo, lo tenevo per la camicia pronto a colpirlo di nuovo. Gli usciva il sangue dal naso e dal labbro, lo avevo colpito per bene. Attorno non ricordo cosa stesse succedendo, avevo bevuto quella dozzina di bicchieri di troppo, i sensi erano ottusi e il campo visivo interamente occupato da dettagli come il blu elettrico della camicia o quelle basette, sopracciglia e ciuffo biondo forgiati in ore di duro lavoro da qualche parrucchiere per finocchi.

A voler essere sinceri, quei dettagli mi avevano urtato da subito, dal primo sguardo, da prima che allungasse la mano per presentarsi tanto tempo prima: “piaceVe Idiota”, con quella stretta caricata di chi spera di convincerti di saper pisciare più lontano di te e una erre moscia enfatizzata in modo grottesco. E probabilmente i suoi continui accenni all’orgoglio italico e al maschio italiano, i suoi modi di fare da furbetto che t’insegna a stare al mondo, agli accenni alle sue innumerevoli e millantate femmine, hanno solo aggravato col tempo una situazione resa poi più che critica dagli ultimi eventi.

Ma a pensarci bene mi aveva anche urtato il fatto che facesse sempre domande senza ascoltare le risposte e sì, anche l’avermi dato dell’imbecille, lo ammetto. Probabilmente con una camicia di un altro colore forse la serata sarebbe andata diversamente, per entrambi dico.

Insomma, è in quel momento, mentre decidevo se dargliene un altro, l’ultimo, così, come a mettere il punto esclamativo dopo le parole “SEI UN POVERO STRONZO”, che è accaduta l’epifania.

Dicono che eventi del genere accadano dopo che ti puntano una pistola in faccia, dopo che ti salvi la vita per miracolo, dopo che assisti ad un evento sovrannaturale, insomma, roba tipo Saulo che cade da cavallo andando in gita a Damasco; un flash che ti lascia boccheggiante a terra a riconsiderare tutta la tua vita passata, presente e futura. La mia, di epifania, mi colse ubriaco, mentre per la prima volta in vita mia picchiavo qualcuno, in un pub che avrebbe fatto schifo pure al demonio.

Il vero problema è che quest’epifania come arrivò fuggì via, immediatamente, in una frazione di battito di ciglia e immagino che ciò fosse dovuto alla mia condizione psicofisica. Mi era rimasta addosso solo una sensazione, come un lampo di consapevolezza, come quando sei alla penultima pagina di un giallo e intuisci come andranno a collocarsi tutti i dettagli che fino a quel punto ti erano sfuggiti.

La verità è che mi distrassi quando gli occhi mi caddero su una foto di Jimi Hendrix alla parete. Sia pace all’anima tua, buon vecchio Jimi, e che tu possa perdonare la mano sacrilega che in quel pub infame decise di metterti vicino ad un poster, per altro brutto, di Vasco. Da ubriaco mi capita di fare cose simili, non picchiare la gente, dico, ma fissarmi su dettagli inutili. Inutili almeno nel momento contingente. E comunque l'accoppiata Jimi-Vasco aveva scansato l’epifania dal centro dei pensieri, buttandola in un qualche sottoscala buio delle mie sinapsi a prendere la muffa.

A quel punto l’ultimo pugno non lo diedi. Non riuscivo a pensare contemporaneamente “cazzotto” e chiedermi quale girone infernale avrebbe potuto ospitare il colpevole di quella blasfemia fotografica. E quindi, come più o meno tutte le cose della mia vita, anche la prima rissa la lasciai a metà.

Sono fatto così, come uno di quei grandi artisti che possono permettersi di limitarsi a tracciare la via e fare due ghirigori mentre uno stuolo di sfigati ragazzi di bottega scalpita per fare il lavoro noioso e leccargli il culo. Io di ragazzi di bottega non ne ho mai avuti e la mia è essenzialmente una storia costellata di incompiuti che anelano al capolavoro.

Lasciai la presa sulla camicia, lasciai l’Idiota riverso sul tavolo, mi guardai attorno, più come gesto teatrale che altro perché la vista era annebbiata di brutto ed era pure buio e non avrei notato nemmeno un gigante vestito da puffo. Prima di andarmene dissi, sollevando un minacciosissimo indice in aria, “e non pensate che io mi sia divertito!”. Che lì per lì m’era sembrata proprio una cosa cazzuta da dire. Una di quelle frasi che la gente cerca di far sue per usarle alla prima occasione.

Brancolando verso la macchina, continuavo a ripetermi quella frase fra me e me, me la facevo passare sulla lingua e tra i denti, non lo nego, con un certo orgoglio. Diavolo, mi sentivo arguto, pungente e feroce, tipo Gunny, del tutto ignaro di quanto mi sarei ritrovato caricaturale l'indomani.

Raggiunsi la macchina, misi una mano in tasca per cercare le chiavi. Non le trovai. Provai un’altra tasca, poi una terza, una quarta e furono finite. Rifeci il giro, fallii e rinunciai. Non c’era altro da fare che chiedere l’aiuto da casa, così chiamai Nib.

Nib è un animale dagli orari instabili, imprigionato in un lavoro dove fa lo schiavo di tutti, e una vita che a tratti cerca di essere sregolata benché con risultati alterni. Nib è mio fratello ma, in quel frangente, il dettaglio più importante è che rispose al mio SOS.

L’ultima cosa che ricordo prima del buio è lui che mi fruga nelle tasche in cerca delle chiavi della macchina.

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